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martedì 30 settembre 2014

Joseph Mallord William Turner

J. M. William Turner (1775-1851), fu un artista inglese complesso, con una profonda evoluzione artistica. Indubbiamente un grande. La sua vita fu dedicata totalmente alla vocazione pittorica, infatti tra pitture, disegni e acqueforti creò migliaia e migliaia di opere. Ebbe subito successo, non si sposò mai, pur avendo varie amanti da una delle quali ebbe due figlie, e nella casa di una di esse morì il 19 dicembre 1851. Visse invece con il padre fino alla morte di questi. Fece vari viaggi in Europa, soprattutto in Italia. T. nasce nel 1775 da famiglia molto modesta, il padre era un barbiere, e fu il primo a promuovere le capacità del figlio ancora adolescente mettendo i suoi lavori in esposizione nella vetrina della propria bottega. Rimasto orfano della madre, che morì pazza per il dolore della perdita di una figlia, T. andò a vivere da uno zio materno. A 14 anni iniziò a frequentare la Royal Accademy of Arts e già alla fine del suo primo anno fu scelto un suo lavoro da esporre alla Mostra annuale dell'Accademia, cosa che lui fece poi per il resto della vita. Ci sono artisti che vengono riconosciuti solo dopo la morte, non fu il caso di Turner che ebbe subito successo. Ma in un secondo tempo anche molte critiche. Indubbiamente T. era davvero dotato per il disegno, ne lascerà più di 19.000, e la sua dedizione al proprio lavoro fu molto forte, come in fondo per ogni vero artista in ogni tempo. Naturalmente nella sua formazione artistica e culturale erano quasi obbligatori i viaggi, soprattutto quello in Italia toccando Roma, Venezia, Firenze, Napoli. Ma visitò più volte anche Francia, Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Olanda e fece vari viaggi nella stessa Inghilterra. Studiò le opere del Louvre e l'arte italiana e fu anche interessato e a volte amico di artisti del suo paese. A questa formazione è legata una gran parte delle sue opere e anche la scelta dei soggetti: paesaggi italiani, paesaggi alpini, e, secondo la moda del tempo, scene storiche, battaglie. La sua opera si svolse durante il Romanticismo e ne subì certamente l'influenza nei soggetti e nello stile. Ma col tempo la sua ricerca pittorica, l'uso dei colori e di una tecnica mista tra acquerello e olio, danno un risultato particolare, che molti hanno detto precorritore dell'Impressionismo. In realtà Turner va oltre, soprattutto nell'ultima parte del suo lavoro, quando nelle sue opere le immagini bisognerà andarle a cercare, di solito alla base della composizione perché l'opera è in realtà una deflagrazione di colore e luce, veri, soli, unici protagonisti. Turner vedeva nella luce, nel sole Dio, dicono gli storici e i critici d'arte, ma sono solo le motivazioni che forse lo stesso artista si dava, ma, oltre ad un certo Espressionismo, secondo me innegabile, che il suo colore crea, si può leggere nella sua opera una ricerca coloristica e artistica molto “avanti” molto “moderna”. Immagini quasi inesistenti e una sarabanda di colore e luce che più “fuori” dalla pittura del suo tempo, non potrebbe essere. Di Turner è questo di cui ci si innamora: quei luminosi, quei cupi, spesso drammatici colori rutilanti e trascolaranti. E di ciò si innamorò John Ruskin, che giovanissimo, lo difese dalle forti critiche con cui fu accolta ad un certo punto l'evoluzione del suo stile, che ormai dava spazio più alle emozioni che alle immagini. Ruskin è stato un complesso personaggio della cultura inglese, saggista, pittore, critico d'arte, che a soli 17 anni, nel 1826, difese Turner con forza con una lettere al giornale che aveva criticato l'opera dell'artista, lettera che ebbe grande risonanza. Nacque una grande amicizia tra i due e Ruskin fu addirittura nominato dall'artista suo esecutore testamentario. Gli Impressionisti amano le immagini, amano la luce e il colore, il paesaggio, la vita quotidiana, sono tutto tranne che drammatici, sia in ciò che raffigurano sia nel modo di trattare il colore. Loro raccontano la vita, il mondo. Realisticamente, anche se poeticamente. Forse solo proprio con Monet, che l'amò prima e si ricredette dopo, c'è una qualche affinità per quel valore del colore come protagonista dell'arte e lo sfaldamento totale delle 'cose' (in Monet solo in alcune opere: Impression, soleil levant) che ebbero talvolta in comune, ma è Monet che viene dopo. Turner racconta l'interiorità, il conflitto interiore, attraverso e con la scusa della violenza della natura, in modo drammatico. La scena rappresentata, quando si distingue, è per lo più irrilevante. Il parallelo si può comunque comprendere, si parla di luce, colore e impressioni. Impressioni più concrete da un lato e impressioni più emotive dall'altro. In una pagina su Rotko, Gillo Dorfles parla delle vibrazioni coloristiche che si sprigionano dalla vicinanza dei colori nelle sue tele. Certo, a mio avviso, le vibrazioni che si sprigionano dai colori di Turner sono davvero assai più forti.
             Maresa Sottile

martedì 9 settembre 2014

La Rotonda di Andrea Palladio

L'architettura, come la scultura e la pittura, nel '400 ha una vita propria non collegata all'ambiente circostante. L'artista pensa alla propria opera e non dà importanza al luogo che l'accoglierà. La sua visione non va oltre la propria opera che resta bloccata nello spazio, autosufficiente e spesso senza alcun legame e immedesimazione con l'ambiente circostante. Nel '500 le cose cambiano pian piano grazie al plasticismo di Michelangelo e grazie alle perfette proporzioni e il giusto contrasto tra vuoti e pieni delle opere del Bramante. Dall'immergere l'edificio nello spazio e lo spazio nell'edificio nasce pian piano un nuovo elemento, che non è solo architettonico ma anche pittorico, che è la scenografia ed il gusto per essa. Andrea Palladio (1508-1580) di origine vicentina fu il più grande architetto della seconda metà del '500. Egli aveva in sé tutte le caratteristiche proprie degli architetti veneti, con in più uno spiccato senso classico, riscontrabile in quasi tutte le sue opere. Fu autore di molte opere importanti, dal Teatro Olimpico alla Basilica a Vicenza, alla chiesa del Redentore a Venezia, ma indubbiamente la più famosa e rappresentativa è La Rotonda, cioè Villa Valmarana, nella campagna vicentina. La Rotonda meglio di ogni altra racchiude ed esprime, in una sintesi stringata e perfetta, la personalità e la concezione architettonica del Palladio. La villa fu costruita su commissione del canonico Paolo Almerico intorno al 1550 e terminata dallo Scamozzi (1548-1616) che subentrò alla morte del Palladio, e che interpretò a suo modo i disegni del predecessore, vero ideatore del progetto. I lavori furono terminati nei primi del '600 da Mario Capra come risulta dalle scritte sulle lastre di marmo. Il progetto, nella sua grande linearità e semplicità, è in realtà un'idea di grande originalità concettuale e grande armonia formale. E potremmo dire che l'idea del Palladio ebbe un successo planetario. Infatti la villa fu molto copiata dagli architetti inglesi e portata poi in America dai coloni britannici. Vedi anche la Casa Bianca. La Rotonda fu concepita dal Palladio come edificio a pianta centrale, una croce greca innestata su un dado quadrato. Al centro l'incrociarsi dei due bracci crea il vastissimo salone circolare illuminato dall'alto e gravitante intorno alla cupola emisferica, per accentuarne ancor più il senso di accentramento intorno all'elemento circolare. Lo Scamozzi, completando i lavori, preferì una cupola ribassata e l'effetto che voleva il Palladio venne così sminuito. I bracci della croce escono dal dado e terminano in quattro vasti pronai ionici con sei colonne, preceduti da ampie scalee. Dagli ingressi, attraverso quattro corridoi si giunge nel vasto salone circolare la cui cupola, divisa in riquadri da vistose cornici fu decorata dalle sculture del Ridolfi e del Rubini, e da pitture del Maganza. Ai quattro angoli della villa corrispondono quattro saloni dai magnifici camini con stucchi del Ridolfi, pitture del Maganza, del Dorigny e dell'Aviani. Lo spazio che i vestiboli e le scalinate occupano è maggiore di quello della villa, tanto che ogni singolo pronao potrebbe essere la giusta facciata di un tempio. Le statue che li adornano sono di Lorenzo Rubini e quelle sui timpani sono dei primi del '600 eseguite dall'Albanese. La villa è dipinta di bianco con due finestre per facciata, una per ogni lato del pronao; un lieve cornicione disegna, in grigio sul muro pieno, la continuazione dell'architrave del pronao. Nei muri laterali dei pronai si aprono delle ampie arcate e lo Scamozzi fece aprire altre finestrature più piccole e quadrate sotto i poggi creati dalle scalee. Queste aperture nell'edificio creano un effetto di inclusione del paesaggio nell'architettura, dando un nuovo senso alla costruzione e creando il presupposto, coniugato in effetti in ogni sua opera, dello studio dell'ambiente dove una costruzione sorgerà. La Rotonda appartiene al gruppo delle ville-tempio che saranno molto in voga prendendo spunto proprio da essa, ed è sicuramente la più bella fra queste. Nell'accentrarsi dell'edificio intorno al nucleo della sala circolare e della cupola e nel contrasto tra la curva interna e la linea dritta del corpo esterno si ritrova il movimento del Pantheon. I motivi greco-romani usati dal Palladio e composti in maniera nuova dall'artista acquistano valori nuovi, contemporanei ai tempi. Prima di progettare Palladio guardò il luogo ove l'edificio doveva sorgere e ideò poi la sua opera senza dimenticare lo spazio in cui essa avrebbe avuto vita. L'ondulato anfiteatro della valle vicentina la circonda e accoglie ed essa sembra esserne parte naturale. La villa è ben visibile da tutta la valle e tutta la valle è ben visibile dalla villa. Lento il Bacchiglione scorre per la dolce campagna ondulata portando al Brenta le barche di Verona. Sembra che La Rotonda abbia sempre fatto parte della campagna che si svolge intorno e pare riflettersi sulle pareti bianche, appena chiaroscurate dai vuoti delle finestre e dai cornicioni, nei porticati ariosi e lievemente ombreggiati, nelle linee sobrie, serene, piene di semplice e classica eleganza. E l'aria vive e vibra intorno e nell'edificio, come l'edificio vive nell'aria in una continua reciproca immedesimazione che è la principale bellezza dell'opera. La luce si modula in tono pittorico sulle calme superfici con passaggi lievi e dall'insieme spira una serenità un po' malinconica ed una dolce, solenne monumentalità. Le masse sporgenti dei pronai creano un movimento dei volumi, che rende viva e plastica la costruzione e la anima di ombre e luci che ne articolano le facciate. Tutti questi elementi, che hanno millenni, ritrattati da un altro artista avrebbero potuto dare un'opera che avrebbe giustificato in pieno la parola “manierismo” che comprende proprio il periodo in cui opera Palladio. Ma qui vi è quella giusta misura, la disposizione che rende fresco e nuovo il tema, il perfetto equilibrio di pieni e vuoti, di piani lisci e luminosi e di piani movimentati e ombrati, che insieme a quel misterioso “quid” che è l'arte, danno per risultato un autentico capolavoro. Nel 2004 l'UNESCO ha dichiarato La Rotonda patrimonio dell'umanità.
                                                                    Maresa Sottile