Visualizzazioni totali

giovedì 4 dicembre 2014

TRE GRANDI MOSTRE AL PALAZZO REALE DI MILANO: CHAGALL, SEGANTINI, VAN GOGH

A Palazzo Reale di Milano ci sono tre grandi Mostre: Chagall, Segantini e Van Gogh, e c'è una grande affluenza di pubblico, come sempre. Le mostre, per chi fosse interessato, si concludono nel 2015, quella di Segantini il 18/1, quella di Chagall l'8/2, infine Van Gogh l'1/3. La mostra di Chagall è piuttosto ricca con anche alcune delle opere più famose dell'artista. Chagall (1887/1985) è un unicum nell'arte, cosa comune ai più grandi. E' difficile non riconoscere le sue opere con quelle case a volte capovolte, i grandi mazzi di fiori, gli innamorati che spesso volano sulle case, come accade anche ad alcuni suoi violinisti... ma pure i Cristo, con il panno rigato che usa la sua gente a ricordarci quello che troppo spesso dimentichiamo. Tutte narrano del suo piccolo e lontano paese natio, Vitebsk sperduto nella vasta Russia, del suo mondo ebraico, dell'amore per Bella, sua moglie, che non si spense mai. Eppure questo mondo così personale diventa un luogo universale, dove M. C. narra le umane vicende, belle e brutte, tristi e gaie. Così i suoi mazzi di fiori, spesso rose, a volte inseriti nell'opera, a volte protagonisti unici, ricordano la bellezza, portano ottimismo, come i suoi colori che dai bruni un po' cupi pian piano si schiariranno e diverranno più vivaci. Chagall nel 1910 lasciò la Russia e andò a Parigi e nel '13 in Germania dove la sua opera fu accolta favorevolmente, ma con l'avvento del nazismo non potè neppure recuperare le opere che vi aveva lasciato, che, come quelle di molti altri artisti, furono imbrattate e distrutte come opere debosciate. Nato povero, in Russia non riuscì realmente a inserirsi, anche se creò un'Accademia d'Arte nel suo paese e per un po' partecipò alla vita artistica russa, ma sarà in Francia, anche se con un periodo a New York durante la 2° Guerra Mondiale, che C. avrà successo ed anche agiatezza, grazie a Vollard, il famosissimo mercante d'arte anche di Picasso, che lo ritrasse in un bellissimo quadro cubista. Nel 1858 ad Arco di Trento, grazioso paese nei pressi del lago di Garda, nasce Giovanni Segantini. La sua vita è segnata da lutti e miseria e ne fa uno sbandato finché ne 1874, uscito dal riformatorio, si iscrive all'Accademia di Brera e trova lavoro presso la bottega del pittore Tettamanzi. Nel 1894 si trasferisce con moglie e figlio in Engandina, a Maloja. Segantini ama la montagna e la racconta in tutta la sua maestà, ama e narra il lavoro umile e faticoso di contadini montanari e pastori, ama gli animali, buoi, mucche, pecore e le racconta con affetto, tanto che quando dipinge la serie de Le due madri dipinge una donna con un neonato in braccio e una mucca col vitellino accanto, in una stalla. Anche Segantini (si chiamava Segatini e nel '74 aveva modificato il cognome) ebbe successo e raggiunse una certa agiatezza, ma morì nel 1899 a soli 41 anni, per un attacco di peritonite. Le opere provengono in gran parte dal museo Segantini di S. Moritz. Non si potrebbero trovare due artisti più diversi di Chagall e Segantini, esposti così vicini a Milano. Quanto è fantastico e visionario il primo tanto è realistico il secondo. Uno usa un colore vivace a zone che poi si macchiano di altri colori, l'altro usa piccole pennellate di vari colori con la tecnica del Divisionismo. Tanto è ottimista l'uno tanto è cupo l'altro, tranne quando la sua opera incontra il bianco. Il bianco di Segantini è uno dei più bei bianchi che abbia mai visto in pittura: un bianco luminoso che travolge la cupezza dell'autore. Può essere il bianco della neve o di un ombrello e l'opera si illumina di una luce e di un fascino particolare. Chiude la mostra L'Angelo della vita, del 1894 con studi e varie versioni, un'opera completamente diversa per svolgimento del tema della maternità, sia per la tecnica pittorica sia per i colori, soprattutto grigi e cerulei, dolci e sfumati. Vien da pensare ad una rilettura della grande pittura del passato, addirittura si pensa ai Preraffaelliti, ma in effetti è una pittura diversa dolce e sognante, un modo nuovo per S. che rimane un momento particolare senza uno sviluppo. Vincent Van Gogh è uno degli artisti più conosciuti, i cui quadri hanno raggiunto le più alte quotazioni al mondo, pensare che da vivo vendette un'unica tela e al fratello Theodor, che lavorava nell'ambiente artistico e che lo supportò sempre economicamente e moralmente. Sappiamo tutti che Van Gogh ebbe una vita misera e infelice, afflitto anche da disturbi nervosi e che morì suicida. La sua pittura, paesaggi e ritratti per lo più, è carica di colore, movimento, anche se statica, dato dalle sue pennellate che cambiano direzione e che ci pare possano essere contate. Anche lui un unicum nell'arte, con connotazioni così personali che non può essere seguito da nessuno perché non avrebbe senso, sarebbe solo un'imitazione. La mostra di Van Gogh mi è parsa la meno riuscita, le opere sono del periodo in cui V.G. studia da autodidatta per diventare pittore, cosa che decise a 27 anni, senza aver combinato molto fino allora. Così la mostra segue i suoi studi, i suoi primi tentativi pittorici con tele che poco hanno a che fare col Van Gogh che tutti amano. Solo nell'ultima sala ci sono otto dipinti che ci fanno vedere l'artista che conosciamo, un po' poche e non tra le più famose, oltre un piccolo Autoritratto che ci accoglie, con una cornice che lo soffoca, all'inizio della mostra. E, purtroppo, si resta un po' delusi. Maresa Sottile

martedì 18 novembre 2014

GIOVANNI BOLDINI al MacManzoni di Milano

Giovanni Boldini (1842/1941) è un pittore molto particolare, meglio unico. E' ritenuto il massimo rappresentante della pittura della Belle Epoque, quel periodo 'favoloso', soprattutto per chi faceva parte di una certa società ricca. Figlio d'arte, a vent'anni si trasferisce, dopo i primi studi nella città natale di Ferrara, a Firenze dove frequenta l'Accademia di Belle Arti ed il mondo dei Macchiaioli al Caffè Michelangelo. Non ama insegnamento accademica e se ne allontana presto. A Giovanni piace il 'bel mondo' e riesce a crearsi frequentazioni altolocate e ricche. Lega infatti con Cristiano Banti, pittore dai grandi mezzi economici, pronto ad aiutare ed ospitare nelle sue ville gli amici, e collezionista d'arte. Con lui va a Napoli per fare i ritratti alle sue figlie, una delle quali un giorno vorrà sposare, ma la cosa non andrà in porto. G. B. non si sposerà se non a 87 anni con una giornalista trentenne. Naturalmente Boldini si reca a Parigi, nel 1867, cuore e centro motorio dell'arte del tempo. Viene quindi in contatto con vari artisti quali Degas, Manet, Sisley, e visita ovviamente l'Esposizione Universale. Poi va a Londra dove un ricco amico gli offre uno studio nel centro elegante degli affari. Tornato a Parigi aprirà uno studio a Place Pigalle e firmerà un contratto con l'importante mercante ed editore d'arte dell'epoca Goupil. La formazione artistica di B. fu ampia, dal '400 italiano ai Macchiaioli, agli impressionisti, a Goya e ai grandi del passato come Velasquez e Rembrandt, ma anche ai grandi ritrattisti inglesi e ai futuristi. E già dall'inizio mostrò grandi doti artistiche e grande perizia tecnica. Boldini fu soprattutto un ritrattista, e con i ritratti farà la sua fortuna. Non è da tutti essere bravi ritrattisti. Il ritratto è un genere per cui bisogna essere portati, non basta la semplice somiglianza del soggetto raffigurato, ci vuole una capacità particolare nel saper rendere la persona ritratta: renderlo psicologicamente. Non tutti i pittori, anche grandi, hanno questa dote. Lui ce l'ha, e in più crea un genere unico, soprattutto nei ritratti femminili. I suoi ritratti diverranno il simbolo della Belle Epoque. Donne bellissime, elegantissime, ingioiellate, in pose deliziose. Il trionfo della superficialità, dell'apparenza! E invece no. A parte la grande piacevolezza di ciò che si vede c'è altro. Sì, Boldini ama queste cose, ma è riuscito a creare qualcosa che va oltre. Un mondo fantastico, con donne fascinose, a volte misteriose nel loro sottile erotismo, avvolte da colori trasparenti, trascoloranti di sete, rasi, velluti, voille e spesso da una ventata di spensieratezza e di luce, soprattutto quando le racconta nella loro estrema intimità: nude. E il suo colore può diventare un fuoco artificiale sfavillante che sfalda parte dell'immagine. Una tecnica coloristica che crea dinamismo, quello tanto predicato, urlato da Marinetti. Ed anche le pose sono spesso dinamiche anche se il personaggio è seduto. No, i ritratti di G.B. non sono vacue rappresentazioni di ricchezza e bellezza, ma un poema sulla femminilità nelle sue sfaccettature anche intime, spesso erotiche, ma anche malinconiche a volte. Certo le sue donne sono ricche, privilegiate, ma sono sempre donne, con la loro femminilità, forse coi loro segreti, forse coi loro dispiaceri. B. dipingerà anche paesaggi, in essi la lezione di Canaletto, degli Impressionisti e dei Futuristi troverà un nuovo linguaggio espressivo legato a quelle pennellate saettanti, nervose, che li renderanno particolari, dinamici, sognanti, come avvolti in un'atmosfera speciale. Maresa Sottile Giovanni Boldini è in mostra alla Galleria GAM Manzoni via Manzoni 45 di Milano fino al 18/1/15.
                                                                                               Maresa Sottile

martedì 30 settembre 2014

Joseph Mallord William Turner

J. M. William Turner (1775-1851), fu un artista inglese complesso, con una profonda evoluzione artistica. Indubbiamente un grande. La sua vita fu dedicata totalmente alla vocazione pittorica, infatti tra pitture, disegni e acqueforti creò migliaia e migliaia di opere. Ebbe subito successo, non si sposò mai, pur avendo varie amanti da una delle quali ebbe due figlie, e nella casa di una di esse morì il 19 dicembre 1851. Visse invece con il padre fino alla morte di questi. Fece vari viaggi in Europa, soprattutto in Italia. T. nasce nel 1775 da famiglia molto modesta, il padre era un barbiere, e fu il primo a promuovere le capacità del figlio ancora adolescente mettendo i suoi lavori in esposizione nella vetrina della propria bottega. Rimasto orfano della madre, che morì pazza per il dolore della perdita di una figlia, T. andò a vivere da uno zio materno. A 14 anni iniziò a frequentare la Royal Accademy of Arts e già alla fine del suo primo anno fu scelto un suo lavoro da esporre alla Mostra annuale dell'Accademia, cosa che lui fece poi per il resto della vita. Ci sono artisti che vengono riconosciuti solo dopo la morte, non fu il caso di Turner che ebbe subito successo. Ma in un secondo tempo anche molte critiche. Indubbiamente T. era davvero dotato per il disegno, ne lascerà più di 19.000, e la sua dedizione al proprio lavoro fu molto forte, come in fondo per ogni vero artista in ogni tempo. Naturalmente nella sua formazione artistica e culturale erano quasi obbligatori i viaggi, soprattutto quello in Italia toccando Roma, Venezia, Firenze, Napoli. Ma visitò più volte anche Francia, Germania, Austria, Svizzera, Belgio, Olanda e fece vari viaggi nella stessa Inghilterra. Studiò le opere del Louvre e l'arte italiana e fu anche interessato e a volte amico di artisti del suo paese. A questa formazione è legata una gran parte delle sue opere e anche la scelta dei soggetti: paesaggi italiani, paesaggi alpini, e, secondo la moda del tempo, scene storiche, battaglie. La sua opera si svolse durante il Romanticismo e ne subì certamente l'influenza nei soggetti e nello stile. Ma col tempo la sua ricerca pittorica, l'uso dei colori e di una tecnica mista tra acquerello e olio, danno un risultato particolare, che molti hanno detto precorritore dell'Impressionismo. In realtà Turner va oltre, soprattutto nell'ultima parte del suo lavoro, quando nelle sue opere le immagini bisognerà andarle a cercare, di solito alla base della composizione perché l'opera è in realtà una deflagrazione di colore e luce, veri, soli, unici protagonisti. Turner vedeva nella luce, nel sole Dio, dicono gli storici e i critici d'arte, ma sono solo le motivazioni che forse lo stesso artista si dava, ma, oltre ad un certo Espressionismo, secondo me innegabile, che il suo colore crea, si può leggere nella sua opera una ricerca coloristica e artistica molto “avanti” molto “moderna”. Immagini quasi inesistenti e una sarabanda di colore e luce che più “fuori” dalla pittura del suo tempo, non potrebbe essere. Di Turner è questo di cui ci si innamora: quei luminosi, quei cupi, spesso drammatici colori rutilanti e trascolaranti. E di ciò si innamorò John Ruskin, che giovanissimo, lo difese dalle forti critiche con cui fu accolta ad un certo punto l'evoluzione del suo stile, che ormai dava spazio più alle emozioni che alle immagini. Ruskin è stato un complesso personaggio della cultura inglese, saggista, pittore, critico d'arte, che a soli 17 anni, nel 1826, difese Turner con forza con una lettere al giornale che aveva criticato l'opera dell'artista, lettera che ebbe grande risonanza. Nacque una grande amicizia tra i due e Ruskin fu addirittura nominato dall'artista suo esecutore testamentario. Gli Impressionisti amano le immagini, amano la luce e il colore, il paesaggio, la vita quotidiana, sono tutto tranne che drammatici, sia in ciò che raffigurano sia nel modo di trattare il colore. Loro raccontano la vita, il mondo. Realisticamente, anche se poeticamente. Forse solo proprio con Monet, che l'amò prima e si ricredette dopo, c'è una qualche affinità per quel valore del colore come protagonista dell'arte e lo sfaldamento totale delle 'cose' (in Monet solo in alcune opere: Impression, soleil levant) che ebbero talvolta in comune, ma è Monet che viene dopo. Turner racconta l'interiorità, il conflitto interiore, attraverso e con la scusa della violenza della natura, in modo drammatico. La scena rappresentata, quando si distingue, è per lo più irrilevante. Il parallelo si può comunque comprendere, si parla di luce, colore e impressioni. Impressioni più concrete da un lato e impressioni più emotive dall'altro. In una pagina su Rotko, Gillo Dorfles parla delle vibrazioni coloristiche che si sprigionano dalla vicinanza dei colori nelle sue tele. Certo, a mio avviso, le vibrazioni che si sprigionano dai colori di Turner sono davvero assai più forti.
             Maresa Sottile

martedì 9 settembre 2014

La Rotonda di Andrea Palladio

L'architettura, come la scultura e la pittura, nel '400 ha una vita propria non collegata all'ambiente circostante. L'artista pensa alla propria opera e non dà importanza al luogo che l'accoglierà. La sua visione non va oltre la propria opera che resta bloccata nello spazio, autosufficiente e spesso senza alcun legame e immedesimazione con l'ambiente circostante. Nel '500 le cose cambiano pian piano grazie al plasticismo di Michelangelo e grazie alle perfette proporzioni e il giusto contrasto tra vuoti e pieni delle opere del Bramante. Dall'immergere l'edificio nello spazio e lo spazio nell'edificio nasce pian piano un nuovo elemento, che non è solo architettonico ma anche pittorico, che è la scenografia ed il gusto per essa. Andrea Palladio (1508-1580) di origine vicentina fu il più grande architetto della seconda metà del '500. Egli aveva in sé tutte le caratteristiche proprie degli architetti veneti, con in più uno spiccato senso classico, riscontrabile in quasi tutte le sue opere. Fu autore di molte opere importanti, dal Teatro Olimpico alla Basilica a Vicenza, alla chiesa del Redentore a Venezia, ma indubbiamente la più famosa e rappresentativa è La Rotonda, cioè Villa Valmarana, nella campagna vicentina. La Rotonda meglio di ogni altra racchiude ed esprime, in una sintesi stringata e perfetta, la personalità e la concezione architettonica del Palladio. La villa fu costruita su commissione del canonico Paolo Almerico intorno al 1550 e terminata dallo Scamozzi (1548-1616) che subentrò alla morte del Palladio, e che interpretò a suo modo i disegni del predecessore, vero ideatore del progetto. I lavori furono terminati nei primi del '600 da Mario Capra come risulta dalle scritte sulle lastre di marmo. Il progetto, nella sua grande linearità e semplicità, è in realtà un'idea di grande originalità concettuale e grande armonia formale. E potremmo dire che l'idea del Palladio ebbe un successo planetario. Infatti la villa fu molto copiata dagli architetti inglesi e portata poi in America dai coloni britannici. Vedi anche la Casa Bianca. La Rotonda fu concepita dal Palladio come edificio a pianta centrale, una croce greca innestata su un dado quadrato. Al centro l'incrociarsi dei due bracci crea il vastissimo salone circolare illuminato dall'alto e gravitante intorno alla cupola emisferica, per accentuarne ancor più il senso di accentramento intorno all'elemento circolare. Lo Scamozzi, completando i lavori, preferì una cupola ribassata e l'effetto che voleva il Palladio venne così sminuito. I bracci della croce escono dal dado e terminano in quattro vasti pronai ionici con sei colonne, preceduti da ampie scalee. Dagli ingressi, attraverso quattro corridoi si giunge nel vasto salone circolare la cui cupola, divisa in riquadri da vistose cornici fu decorata dalle sculture del Ridolfi e del Rubini, e da pitture del Maganza. Ai quattro angoli della villa corrispondono quattro saloni dai magnifici camini con stucchi del Ridolfi, pitture del Maganza, del Dorigny e dell'Aviani. Lo spazio che i vestiboli e le scalinate occupano è maggiore di quello della villa, tanto che ogni singolo pronao potrebbe essere la giusta facciata di un tempio. Le statue che li adornano sono di Lorenzo Rubini e quelle sui timpani sono dei primi del '600 eseguite dall'Albanese. La villa è dipinta di bianco con due finestre per facciata, una per ogni lato del pronao; un lieve cornicione disegna, in grigio sul muro pieno, la continuazione dell'architrave del pronao. Nei muri laterali dei pronai si aprono delle ampie arcate e lo Scamozzi fece aprire altre finestrature più piccole e quadrate sotto i poggi creati dalle scalee. Queste aperture nell'edificio creano un effetto di inclusione del paesaggio nell'architettura, dando un nuovo senso alla costruzione e creando il presupposto, coniugato in effetti in ogni sua opera, dello studio dell'ambiente dove una costruzione sorgerà. La Rotonda appartiene al gruppo delle ville-tempio che saranno molto in voga prendendo spunto proprio da essa, ed è sicuramente la più bella fra queste. Nell'accentrarsi dell'edificio intorno al nucleo della sala circolare e della cupola e nel contrasto tra la curva interna e la linea dritta del corpo esterno si ritrova il movimento del Pantheon. I motivi greco-romani usati dal Palladio e composti in maniera nuova dall'artista acquistano valori nuovi, contemporanei ai tempi. Prima di progettare Palladio guardò il luogo ove l'edificio doveva sorgere e ideò poi la sua opera senza dimenticare lo spazio in cui essa avrebbe avuto vita. L'ondulato anfiteatro della valle vicentina la circonda e accoglie ed essa sembra esserne parte naturale. La villa è ben visibile da tutta la valle e tutta la valle è ben visibile dalla villa. Lento il Bacchiglione scorre per la dolce campagna ondulata portando al Brenta le barche di Verona. Sembra che La Rotonda abbia sempre fatto parte della campagna che si svolge intorno e pare riflettersi sulle pareti bianche, appena chiaroscurate dai vuoti delle finestre e dai cornicioni, nei porticati ariosi e lievemente ombreggiati, nelle linee sobrie, serene, piene di semplice e classica eleganza. E l'aria vive e vibra intorno e nell'edificio, come l'edificio vive nell'aria in una continua reciproca immedesimazione che è la principale bellezza dell'opera. La luce si modula in tono pittorico sulle calme superfici con passaggi lievi e dall'insieme spira una serenità un po' malinconica ed una dolce, solenne monumentalità. Le masse sporgenti dei pronai creano un movimento dei volumi, che rende viva e plastica la costruzione e la anima di ombre e luci che ne articolano le facciate. Tutti questi elementi, che hanno millenni, ritrattati da un altro artista avrebbero potuto dare un'opera che avrebbe giustificato in pieno la parola “manierismo” che comprende proprio il periodo in cui opera Palladio. Ma qui vi è quella giusta misura, la disposizione che rende fresco e nuovo il tema, il perfetto equilibrio di pieni e vuoti, di piani lisci e luminosi e di piani movimentati e ombrati, che insieme a quel misterioso “quid” che è l'arte, danno per risultato un autentico capolavoro. Nel 2004 l'UNESCO ha dichiarato La Rotonda patrimonio dell'umanità.
                                                                    Maresa Sottile

domenica 10 agosto 2014

Architettura gotica a Napoli

Napoli nell'età Romanica non presenta caratteri particolari, né, a causa di particolari condizioni storiche, la città si arricchisce di monumenti o di opere d'arte romaniche. Dopo la battaglia di Benevento, con la quale viene abbattuta la dominazione sveva nell'Italia meridionale, gli Angioini, vincitori, conquistato il regno trasportarono la capitale da Palermo, legata alla casa Normanna ed a quella Sveva, a Napoli. Ne venne conseguenziale un abbellirsi ed un espandersi della città, la quale, a partire da questo momento si arricchirà di chiese, palazzi, monumenti pubblici. Dei numerosi edifici costruiti dagli Angioini a Napoli ne restano un numero limitato, ma sempre sufficientemente ampio per caratterizzare l'architettura gotica napoletana, che rimane davvero un esempio unico in Italia. Il gotico, nato da una trasformazione avvenuta in terra di Francia, delle forme romaniche, importate in tutta Europa dai Maestri Comacini, costruttori che dal nostro paese si recarono a lavorare in altri paesi, andati in cerca di lavoro o chiamati per la loro perizia, si diffuse a sua volta in tutta Europa. In Italia però subì una forte contaminazione con il romanico e le caratteristiche locali e si distinse da quello che si diffondeva nel resto d'Europa conosciuto come Gotico Fiorito o Flammant (fiammante). Persino il Duomo di Milano, il più vicino al gotico europeo per la sua ricca decorazione e le sue guglie, è comunque pur sempre legato alla tradizione romanica italiana già nella sua stessa forma. Ma a Napoli il gotico giunge direttamente dalla Francia meridionale, dove è nato, portato dagli architetti francesi chiamati a lavorare in città dagli angioini. Quindi potremmo dire che il gotico napoletano è il gotico più puro, più vicino alle sue forme originali, quelle della Provenza da cui provengono i dominatori e i loro architetti, molto più moderate di quelle che si diffondono altrove. Ma gli angioini chiamano anche architetti napoletani a lavorare alle loro fabbriche, anche per motivi 'politici'. Ne nascerà uno stile unico: il gotico napoletano, che si differenzierà da quello del resto dell'Italia. Da un lato è il più vicino a quello nato in Francia. Dall'altro vive nelle sue strutture delle contraddizioni. Contraddizioni che nascono dalla contrapposizione di due identità differenti, quelle dei loro architetti. I francesi legati al nuovo stile architettonico nato nel loro paese, figlio di una concezione spirituale, culturale, diverse da quelle locali. I napoletani contrari alla dominazione francese, indispettiti forse da quello stile straniero, poco vicino alla loro tradizione. Gli angioini non furono mai molto amati dai napoletani, anche se in realtà sono stati discreti governanti, migliori dei futuri spagnoli che davvero non fecero molto bene alla città. Negli anni del loro dominio la città visse un periodo di floridezza soprattutto culturale. Giotto, Boccaccio e molti altri soggiornarono e lavorarono in città, attirati proprio dalla fama di una città culturalmente e artisticamente vivace e interessante e di alto livello. Fra le chiese che mantengono evidenti gli originali caratteri ricordiamo: San Lorenzo Maggiore, S. Maria Donnaregina, Sant'Eligio, Santa Chiara, San Pietro a Maiella, l'Incoronata, San Domenico Maggiore, il Duomo. Quest'ultima è giunta a noi alterata da rifacimenti barocchi, come lo fu Santa Chiara, che poi distrutta nella II° Guerra Mondiale, restaurata negli anni '50 è ritornata alle sue forme originarie. Anche il Castello angioino cioè Maschio Angioino nel tempo ha subito molti rimaneggiamenti. Per comprendere meglio la particolarità dell'architettura gotica napoletana possiamo fare un paio di esempi: nella chiesa di San Lorenzo tra navata e presbiterio l'arco di trionfo ribassato, a grande contrasto con gli archi a sesto acuto propri dello stile, che sembra proprio uno sfregio degli architetti nostrani verso i colleghi stranieri e il loro lavoro. Se poi vogliamo sottolineare la vicinanza del gotico napoletano a quello francese si può ammirare l'abside radiale nella stessa chiesa di San Lorenzo Maggiore. Voglio concludere questi brevi cenni sul gotico napoletano parlando di Internet. Oggi oltre che nei libri si fa ricerca anche sul web. Ho notato che facendola sul gotico in Italia nelle opere non vengono quasi mai nominate quelle napoletane; è pur vero che poi ci sono molti siti su questo argomento, ma questo è un altro discorso. E' come se quello di questa città non fosse allo stesso livello di quello di Firenze o Orvieto, e ciò non è vero. E' solo diverso per i motivi che abbiamo detto ed è forse il gotico più gotico d'Italia.

martedì 5 agosto 2014

La Bibbia , i poeti e le gemme di Maria Algranati

Una delle reazioni al nostro tempo scientifico, tecnologico e razionale che crede tutto possa essere raggiunto e svelato per virtù di laboratori ed esperienze e l'inesplicabile essere soltanto il “non ancora spiegato”, è l'interesse per l'empirismo, l'occultismo, la magia, il fascino dell'inconoscibile. Il movimento antimoderno del resto era già apparso in Francia al principio del secolo (XX° n.d.t.), quando, in quella varietà di correnti filosofiche che, a differenza degli altri lo contraddistingue, scrittori cattolici come il Maritain si rifacevano al medioevo e alla scolastica. Oggi, anche se tornare indietro è inammissibile, la fede nel mondo della primitività affianca e talvolta contrasta quella del progresso specialmente nel campo delle guarigioni, malgrado il miracoloso procedere della medicina. Si ritorna ai “semplici”, erbe per tutti i mali, al tocco delle mani, alla suggestione, ad ogni sorta di quelle che furono le rinnegate superstizioni di un'epoca scontata. Una di queste, delle quali in realtà non si è mai riusciti a liberarsi, è la credenza nelle miracolose influenze e nei simbolici significati delle pietre preziose. La letteratura sull'argomento risale al Mille, quando Narbode, vescovo di Predon, scrive un intero poema in esametri in loro onore, ne vanta le virtù mediche, superiori, dice, a quelle delle erbe, perché “il loro balenio investe in un solo attimo la rete dei nervi e del sangue.” Dopo di lui Alberto il Grande, santo domenicano, Dottore della Chiesa e cristianizzatore del pensiero aristotelico, torna sui loro poteri occulti e finalmente in pieno secolo classico, il buon Corneille (chi lo crederebbe?) medita nei suoi tardi anni sui versetti biblici e scopre che le dodici pietre corrispondono ai dodici articoli del Credo Cattolico. Non basta, fa divertire la serietà con cui, al principio dell'Ottocento, Bernardin de Saint- Pierre, da romanziere precursore dell'esotismo romantico si fa naturalista e proclama con la più candida buona fede i poteri dell'ametista o del topazio nella guarigione delle malattie. Il suo curioso trattatello dovrebbe essere l'ultimo di una singolare letteratura sulle gemme, se, fra i contemporanei non vi avesse aggiuntio pagine di grande bellezza il poeta e diplomatico Paul Claudel, l'autore del mistico “Annonce a Marie”. Informatissimo, perché l'argomento l'ha evidentemente sedotto, ci ricorda le Sacre Scritture e le oscure parole del profeta Isaia, quando parla della Gerusalemme celeste. “Ti fonderò, egli dice, sugli zaffiri”. Ed enumera le dodici pietre preziose che saranno poste a fondamento di essa: diaspro, zaffiro, rubino, smeraldo, sardonico, corniola, crisolito, berillo, topazio, crisoprasio, giacinto ed ametista. Non in tutte le versioni, scrive, il diaspro è diaspro, spesso è un diamante, pietra durissima, gemma delle gemme, raggiante di luce dai suoi fuochi, dunque Dio Padre, lo zaffiro celestiale è il Figlio, il rubino il sangue incontaminato della Vergine, fino al giacinto cangiante nel cui trascolorare da un colore all'altro è il simbolo della della remissione del peccato che si tramuta in condono, fino all'ametista che rappresenta la Vita Eterna. Poeticamente, diffusamente, il Claudel ricalca e chiosa Corneille, costruisce una mistica dei preziosi, scioglie alla fine un inno a questi “tesori che la terra dissimula nel più profondo della sua sostanza.” Essi chiudono in loro i toni vari dell'atmosfera, la sua soave tavolozza vi si concentra, vi si scontrano i colori che giocano alla superficie delle acque e le varie pennellate dei prati, come avessero subito una pressione spirituale, diventano pensiero condensato in luce e sfumature, gioielli sotterranei che corrispondono ai fiori terrestri. “Non c'è – canta, se pure in prosa, il poeta - non c'è una pennellata del mattino o della sera, una variazione dei begli occhi che interroghiamo, un'invenzione dell'animale o della pianta a cui il genio plutonico non abbia fornito un corrispondente. Ma il poeta, che delle gemme simboliche della Bibbia ha fatto il suo scrigno poetico e materia della sua poesia è il de Vigny. Anzi egli è andato più in là, vi ha aggiunto l'oro del quale, fuso in massiccio quadrato, il grande sacerdote si ornava il petto per presentarsi all'Eterno e agli astri, che sono le gemme del cielo e chi sa che cosa altro giacché il salmo dice: “I giusti brilleranno nel cielo come scintille e si differenzieranno in splendore come le stelle.” E certo egli dovette alla sua consuetudine coi libri sacri molte ispirazioni e il suo simbolismo prezioso. Quando si crede, in quanto vate, guida dei popoli, sacerdote della onnipotente poesia, cerca i responsi negli splendori della volta celeste, isolato nella sua “tour d'avoire' che è una torre astronomica certo ormai dell'indifferenza degli uomini, della natura, di Dio, domanda un viatico agli astri, la sua alchimia poetica trasformando il pensiero in diamante, estraendo l'oro dalle fatiche umane, pietre preziose dalle ceneri della civiltà consumate. Costretto dai limiti suoi propri -perché ne ebbe- a cercare fra le cose sensibili, scelse quelle splendenti per indicare ciò che rimane e dura della vita transitoria delle “nations”... Il suo mondo ideale si trasforma in una luminosa vetrina ove splende nelle gemme la condensazione assoluta e raggiante della purezza. Anche lui, come Mida, “ciò che tocca oro diventa”, oro che getta una luce uguale sui suoi quadri desolati, sulle sue tragiche Destinées. Riflessi aurei rivestono di ardore dolce lo sterile deserto che Mosè, l'uomo di Dio, attraversa, oro è intorno a lui l'arida sabbia, ali d'oro hanno ali e arcangeli nel poema Eola, tutta d'oro addirittura è la cupola del Paradiso, l'Aquila delle Asturie, librata nel sole, naviga interamente in un fluido d'oro. Nella natura incantata e baudelairiana della Maison du berger la terra aurea nel vespro religioso ha parti di puro smeraldo ed è fra i diamanti dell'oceano che si dondola la celebre Bottiglia in mare. Allo smeraldo della terra fa riscontro lo zaffiro del cielo e sopra ogni cosa balena, simbolo regale, il diamante, le DIAMANT in tutte maiuscole, posto dal poeta ad esprimere “l'arte” delle “cose” ideali, cristallo durissimo e senza rivali. Esso manda (purtroppo! ché il pensiero del de Vigny, nei difficili “Oracles” si fa stranamente astruso e addirittura ermetico) raggi d'argento e d'oro, che a loro volta, formano due luci di uguale importanza: quella dei pensieri più belli e quella “dell'amore più puro.” Simboli, oracoli, prolusione al surrealismo, quando il Valery farà ancora un passo nell'astrazione, l'oro assumerà un significato surreale, gli astri si chiameranno diamanti tout court, la distillazione intellettuale vaporerà nel “Néant”. E adesso? Adesso, nelle vetrine girano, sotto lampade, le magnifiche gemme artificiali, nate fra il rumore meccanico dalle cabale della chimica sfidando i fuochi di quelle che la natura nella sua lenta gestazione ha impiegato secoli e millenni per accenderle nelle tenebre della terra. (Questo articolo l'ho trovato nelle carte di mia nonna, la poetessa e scrittrice Maria Algranati, della quale ho curato l'autobiografia Tavola Calda. Ho deciso di pubblicarlo perché sono molto interessata all'oreficeria, quindi alle gemme ed ai loro significati, valori, leggende, e dei significati e simbologia che la pittura ha dato attraverso essi, in rapporto ad uno studio che sto scrivendo. Infatti in questo blog vi è un post del 4-10-11 che parla di ciò. Tutto questo è trattato anche nella letteratura, sia passata che più recente, e questo articolo ne è una, sia pur piccola e parziale, testimonianza. Di questo scritto, come di tutte le sue opere, detengo la proprietà letteraria per suo volere testamentario.
                                                                                                            Maresa Sottile

sabato 12 luglio 2014

PREMIO CASTELLO di PRATA SANNITA L'IGUANA nel CENTENARIO della NASCITA di ANNA MARIA ORTESE

L'Italia è un paese pieno di bellezze naturali e colma di opere d'arte. Ma la cosa grandiosa è che fortunatamente ci sono ancora luoghi di bellezza e di storia che non sono noti a tutti. Ci sono meraviglie non calpestate dal turismo di massa che ormai massacra le nostre città d'arte e i nostri siti più belli. Uno di questi luoghi l'ho scoperto alla fine di giugno, eppure è lungo la strada che porta a Roccaraso e che va verso l'Adriatica, da me percorsa centinaia di volte per svariate ragioni. Se ad un certo punto si gira in una traversa e si sale un po' per strade secondarie poco trafficate si arriva a Prata Sannita. C'è un paese nuovo più in pianura, ma se si continua e si sale si giunge ad un castello medioevale su un cucuzzolo a cui da un lato è aggrappato l'antico borgo, e nella valle scorre il Lete tra alberi e sassi. Uno spettacolo bellissimo. Molti lo conosceranno di certo, anche perché so che si organizzano gite e visite guidate, e chiedo scusa per la mia ignoranza. Io sono arrivata a questo castello perché ho partecipato alla prima edizione di un concorso letterario, il premio Castello di Prata Sannita L'Iguana, dedicato ad Anna Maria Ortese di cui ricorre il centenario della nascita. Il premio è nato dall'incontro e dall'amicizia di tre stupende donne: la filosofa Esther Basile, ideatrice dell'associazione Eleonora Pimentel di Napoli, legata all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, dalla giornalista molisana Maria Stella Rossi e dalla 'castellana' Lucia Daga Scuncio. Sì, proprio la 'castellana', cioè la proprietaria, la cui famiglia possiede da oltre 150 anni lo storico castello che risale all'anno Mille e che ha ospitato i Cavalieri Templari e quelli del Santo Sepolcro, Federico II di Svevia e Alfonso II d'Aragona, ma anche il passaggio di ignoti soldati della I o II Guerra Mondiale (Non si sa)che hanno lasciato le loro ordinate e ben scritte firme sul muro di una torre e nelle cui segrete sono stati reclusi, forse torturati,morti in tanti, probabilmente anche personaggi importanti e forse Donna Lucia Daga lo scoprirà. Donna coltissima oltre che simpaticissima e gentilissima, Lucia Daga si occupa, con i figli Vittorio e Domenico di questo monumento storico, creando eventi, accogliendo visitatori con un dolcissimo sorriso. Il figlio Vittorio ha creato in alcune sale due musei: uno sulla Civiltà contadina ed uno con cimeli delle due Guerre Mondiali. Solo tre donne molto in gamba, potevano in pochi mesi organizzare un evento, un Premio Letterario con anche una sezione di fotografia e video, col patrocinio della Presidenza della Repubblica e quella della Camera dei Deputati, della Presidenza del Consiglio Regione Molise e del Comune di Caserta della Biblioteca Nazionale di Napoli, del Teatro San Carlo, di associazioni culturali, biblioteche, Librerie storiche..... un elenco lunghissimo di rappresentati della cultura di tutta Italia. E a presiedere il Premio è stato chiamato il Poeta Elio Pecora, al quale nel pomeriggio dopo la premiazione, il Sindaco Domenico Scuncio ha “donato” un antico albero sulla riva del Lete con una targa che ricorda la sua presenza all'evento. Del Premio ho saputo che ancora non era del tutto “nato” e sùbito ho detto che volevo parteciparvi e credo di essere stata tra le prime ad iscrivermi. Non l'ho vinto, ovviamente, ma ho avuto una Menzione Speciale e dei complimenti molto gratificanti da alcuni membri della giuria, quando mi hanno conosciuta dopo la premiazione. Ma la cosa veramente bella è stata esserci. Esserci alla cena a lume di candela a cui ci ha invitato Lucia Daga, conoscere persone gradevoli e interessanti, visitare luoghi con una storia millenaria e bellezze naturali non contaminate.
                                                                                                             Maresa Sottile

mercoledì 23 aprile 2014

EL GRECO nel IV centenario della morte

Quest'anno ricorre il IV centenario della morte di Domenikos Theotokòpulos, è questo il nome di un pittore che tutti conosciamo come El Greco (Isola di Creta 1541, non è certo se a Fodele o a Candia - Toledo 1614). La Spagna ricorderà questo evento con mostre sia al Prado di Madrid che a Toledo con opere provenienti da tutto il mondo; sia con una mostra itinerante “Tra il cielo e la terra. Dodici sguardi su El Greco. E opere esposte nei luoghi per cui furono eseguite. Un gran fermento in tutta la Spagna per questo suo figlio adottivo che tanta arte le ha donato. Pittore piuttosto originale, studiò ed esercitò nell'isola, dove era iscritto anche alla Gilda, fino al 1560 c. poi approdò a Venezia, dove venne a contatto con la pittura ed i Manieristi veneti, ma anche con Tiziano e, forse, fu per breve periodo suo allievo. Naturalmente l'ambiente artistico veneto è tutt'altra cosa da quello cretese. E' vivace e ricco di grandi artisti che lo affascinano. Prima influenzato dalla pittura bizantina, dipingeva icone a Creta, ora subisce ovviamente lo splendore dei colori e della luce dei pittori veneti, Tintoretto e Jacopo Bassano, lo conquistano più dello stesso Tiziano, che è di lui che forse scrive a Filippo II dicendo: ”...molto valente mio discepolo”. Ma sarà più sensibile alla ricerca manieristica che al gigante del colore che forse frequenta come allievo. Nel '70 va a Roma, e vive un'altra esperienza importante. Vede ovviamente l'opera di Michelangelo, che però non stima come pittore. Certo Michelangelo in ogni sua manifestazione artistica è fortemente scultoreo e forse questo non intrigava un uomo come El Greco, anche perché già a quel tempo il 'vero' colore del grande fiorentino era offuscato dal fumo grasso delle candele, tant'è che forse neppure Giulio II forse vide i veri squillanti colori del grande Buonarroti. Né deve averlo particolarmente colpito la pittura calda, la composizione ampia di Raffaello, la sua intima serenità anche nelle composizioni drammatiche, mai veramente tragiche. El Greco viaggia per l'Italia e infine approda in Spagna a Toledo. Ha completato la sua maturità artistica, ha visto tante cose, ha trovato quelle che si avvicinano più al suo spirito tormentato. Ha formato il suo stile. La luce è uno dei problemi, delle sfide, delle ricerche dei pittori. La luce è una delle protagoniste più importanti della pittura del '500/'600, e El Greco uno degli artisti che ha fatto della luce un uso particolare rendendola protagonista della sua pittura. Ha visto Tintoretto dipingere i contorni con un raggio di luce, Tiziano impastare il colore con la luce, Veronese invadere di luce le sue composizioni grandiose. Lui illuminerà le immagini con guizzi luminosi che renderanno le sue figure allungate e movimentate, drammatiche e surreali. Dopo di lui Caravaggio illuminare le sue scene con proiettori invisibili, fasci di luce che metteranno in evidenza l'azione, la drammaticità e il senso dell'opera. Due modi diversi che portano ad uno stesso risultato in un certo senso: la luce attrice principale delle loro scene fortemente e teatralmente drammatiche. Eppure non potrebbero essere più diversi formalmente. Caravaggio ha alle spalle Cimabue, Giotto, Mantegna, El Greco il mondo bizantino. Le sue composizioni saranno sempre convulse, più verticali che orizzontali ed i suoi colorir lividi. Sperò molto, El Greco, di conquistare la corte spagnola, ma al re non piacque il suo lavoro, che dopo avergli commissionate due tele: l'Allegoria della Lega Santa e il Martirio di San Maurizio relegò quest'ultima nella Sala Capitolare invece che nella Cappella per la quale era stata commissionata. Rimase a Toledo ed ebbe commissioni importanti, ma il sogno di lavorare per il re e raggiungere quindi il riconoscimento più importante che gli avrebbe portato fama e gloria, svanì. Le figure allungate, tormentate, le luci guizzanti che colpiscono i corpi, la pittura sfaldata, i cieli tormentati da nubi apocalittiche, l'inquietudine che c'è nelle sue composizioni, creano una cifra unica nella pittura. E' ciò che contraddistingue i grandi artisti: l'inconfondibilità del loro lavoro. Tra le sue opere più famose Il seppellimento del duca di Orgaz (Toledo S. Tommaso), L'Adorazione dei pastori al Prado di Madrid, Il sogno di Filippo II a Madrid all'Escorial, la Natività alla Galleria Barberini Roma... e i magnifici ritratti di grande acutezza psicologica. Davvero tanti e bellissimi.
                                                                                                                      Maresa Sottile

giovedì 10 aprile 2014

RENE' MAGRITTE un artista Surrealista-Metafisico

La pittura surrealista ha due nomi che credo tutti conoscano: Salvador Dalì e Renè Magritte. Certo non sono gli unici surrealisti, ma di sicuro i più noti. E anche molto diversi. Il primo è molto più drammatico, a volte cupo, non molto ironico, quasi barocco. Spagnolo. Renè Magritte è belga, un'anima diversa, e questo ha il suo peso a mio parere. Il surrealismo di Magritte si avvicina alla metafisica, sotto l'impatto della pittura di De Chirico. E la sua pittura è spesso anche ariosa, luminosa, in qualche caso a primo acchito quasi divertente nella sua grande ironia. Chi dipinge una pipa e scrive sulla tela “Ceci n'est pas une pipe”, ha ragione èd è ironico e divertente, e mette in discussione molte cose. Magritte nasce a Lessin nel 1898 in una famiglia borghese. Ma per lui il destino ha una brutta sorpresa. Nell'età più delicata della vita, l'adolescenza, non ha ancora quattordici anni, sua madre si suicida gettandosi nel fiume Sambre, e cosa ancora più terribile è presente al ritrovamento del suo corpo: quando la ripescano la camicia le copre il volto, lasciando il suo corpo nudo. Una esperienza del genere non la si dimentica e condiziona per sempre. Anche se Magritte non vorrà parlarne, minimizzerà l'influenza del fatto. Ma non sarà vero. Non sarà mai uno spirito allegro, anche se la sua non sarà una vita molto problematica o infelice, e la sua pittura metafisica-surreale (credo che sia più giusto 'etichettarla' così che semplicemente surrealista) ricorderà spesso nelle sue opere, più che l'evento in sé di quell'episodio terribile, ciò che gli sconvolse la vita: il trauma dell'abbandono, dell'incomprensibile dolore, dell'incomprensione del mondo. Magritte farà regolari studi artistici iscrivendosi all'Accademia di Belle Arti di Bruxelles, e, come qualsiasi artista subirà le influenze del suo tempo e dell'arte del suo tempo: Cubismo e Futurismo, anche se in lui c'è già la vena Surrealista. Grande influenza avrà su di lui la visione di un quadro di Giorgio de Chirico: Canto d'amore. E fino a tarda età, con un breve periodo negli anni '40 in cui si darà all'Impressionismo, racconterà nei suoi quadri un mondo spesso onirico e nel contempo molto realistico nella sostanza pittorica, e metterà in evidenza l'incongruenza delle cose, del sentire, del mondo con i suoi interrogativi. La Metamorfosi sarà un'altra sua caratteristica: scarpe che diventano piedi o piedi che diventano scarpe, umani che diventano altro. E ci saranno bare sedute che riprendono quadri di altri artisti, come Prospettiva: Madame Récamier di J.L.David che riprende quello di David o Prospettiva: il balcone di E. Manet, che sempre con bare sedute al balcone ripiglia l'opera dell'impressionista che ritrae una famiglia borghese al balcone. Ma anche sonagli da soli che volano o nei corpi, nelle piante: metamorfosi di che? Le interpretazioni della critica e degli storici sono tante, ma forse ognuno guardando deve dare la sua, perché le opere di Magritte sono tutte misteriose e da interpretare, parlano all'inconscio ed anche alla mente di ognuno, e ognuno è diverso dall'altro. E sono belli e luminosi i suoi cieli dove si stagliano nuvole luminosamente candide, omini di spalle in bombetta che vi volano, o vi si staglia una coppa da champagne in cui sosta e straborda una nuvola. Sono stata al Museo di Capodimonte stamane e, improvvisamente, sono stata colpita da un enorme quadro in uno dei saloni dell'appartamento reale, ora tutto diventato Museo. Il quadro è di Jean Jaoseph Xavier Bidauld (1758-1846) e si chiama: Castello al chiaro di luna. E' un bellissimo paesaggio rischiarato dalla luna, con sullo sfondo un castello con alcune finestre illuminate. E mi è subito venuto alla mente il, bellissimo anche questo, dipinto di Magritte molto affascinante: L'impero delle luci, tema che l'artista riprese in più tele (cosa che accade per molti suoi dipinti), che ha una discreta somiglianza con quello del Bidauld in questa 'notturnità' illuminata da un fanale davanti all'edificio e le finestre illuminate che rilucono sul nero dei muri, ma il cielo è diurno con nuvole bianche. Il punto è che all'inizio non ci si rende nemmeno conto del non-sense. E mi sono ancor più convinta che già tutto è stato fatto, detto, vissuto. Eppure tutto è diverso da tutto. E ci sono i quadri dell'angoscia, quelli avvolti dal panno bianco che nasconde i volti o che 'vestono' parti di corpi nudi. Ci sono immagini di cose e oggetti monocrome perché tutti della stessa materia, che nulla ha a che vedere con essi. E ci sono i quadri ironici, come La notte di Pisa, dove in un paesaggio non paesaggio la Torre di Pisa è sorretta nella sua pendenza da una morbida piuma.
                                         Maresa Sottile

giovedì 27 marzo 2014

FORTUNATO DEPERO un grande artista del FUTURISMO

Fortunato Depero (Fondo 1892-1960 Rovereto), è uno degli artisti più versatili e interessati del grande Movimento Artistico che è stato il Futurismo, per anni un po' “dimenticato” per certi suoi legami con il fascismo, gli viene ormai da tempo riconosciuto il giusto ruolo che gli spetta nel panorama artistico italiano e internazionale. Infatti è stato il solo grande movimento artistico italiano della prima metà del '900, che ha anche influenzato l'arte d'Europa, sino alla Russia, e agli Stati Uniti, dove proprio in questo periodo viene ricordato con una grande mostra al Guggennheim di N.Y.. E sempre a New York, proprio con opere di Depero, si è inaugurata la fondazione italiana CIMA (Center of Italian Modern Art) voluta da Laura Mattioli, figlia di un grande collezionista e amico dell'artista. Depero, nato in Val di Non, nel Trentino ancora austriaco, manifestò le sue attitudini artistiche sin da ragazzino. Spirito davvero poliedrico, e con una visione dell'arte figurativa a trecentosessanta gradi. La famiglia si trasferisce a Rovereto, città nella quale, dopo viaggi e permanenze in altre città e all'estero, si fermerà, fondando anche il Museo Galleria Depero, ancora esistente. Dopo gli studi alla Scuola Reale Elisabettiana, cioè in una scuola d'arte, non viene accettato dall'Accademia di Belle Arti di Venezia e se ne va a lavorare a Torino per l'Esposizione Internazionale. Naturalmente come decoratore, poi torna a casa e lavora con un marmista, facendo tesoro di quest'esperienza. Depero è uno sperimentatore, ama le arti applicate, cioè le cosidette arti minori. Ed è un vulcano di idee, forse ancora un po' confuse e influenzate dal mondo in cui vive, influenzate dalle mode del momento, come è giusto che sia per un ragazzo, meglio un adolescente. Ma, venuto a contatto con i Futuristi, troverà presto la sua strada, mescolando le influenze di Boccioni e di Balla, ma non imitando nessuno e trovando una sua cifra, che avrà varie fasi, ma che sarà sempre chiaramente riconoscibile e solo sua. Depero sarà un artista instancabile, che produrrà una gran varietà di tipi di opere, dalla pittura ai tappeti, agli arazzi, ai manifesti pubblicitari, agli oggetti, ai costumi e scene teatrali, all'abbigliamento: Renzo Arbore, ad esempio, possiede alcuni dei gilet indossati da Marinetti e Cangiulli, opere di Depero, e beviamo ancora il Campari dalla bottiglietta da lui disegnata. Le arti applicate non sono per lui meno importanti di quelle con l'A maiuscola. Cosa che quasi tutti gli artisti hanno sempre conseguito, d'altronde, ma che in Depero è fondamentale, perché davvero per lui non vi è differenza tra l'Una e l'Altra. Depero trova nel Futurismo quello che più di ogni altro Movimento, Corrente Artistica gli avrebbe potuto dare, il Futurismo era già in lui, nella sua ricerca, ancor prima di venirne a contatto. Entrò nel Movimento giovanissimo esponendo alla galleria futurista di Sprovieri, ma viene definito un artista del 2° futurismo. Il primo, quello 'eroico', finiva con la morte di Umberto Boccioni, Antonio Sant'Elia e Carlo Erba, ma è in questo periodo che il Futurismo verrà davvero a contatto col pubblico e la vita di tutti, proprio con quella parte di Arti applicate che tanto frequentava con passione e da sempre Depero. Le opere di Depero sono inconfondibili, come lo sono sempre quelle dei grandi artisti. Se si conosce un po' di storia dell'arte e si vede un'opera di Leonardo o di Morandi o di Pollock, non si potrà mai confonderla con quella, anche se similare, di un altro artista. Le opere di Depero sono dinamiche, estremamente gradevoli da guardare, quindi molto decorative, ma non solo. Hanno in loro una visione personale. Le sue immagini molto geometrizzate, a volte robot e manichini, e prendono vita dalla vivacità dei colori, dalle sue variazioni a volte apparentemente incongruenti, che danno loro, invece, un senso anche estetico molto forte. Molte sue opere trasmettono gioia, altre angoscia, a seconda dei colori soprattutto, ma tutte hanno una grande valenza compositiva e cromatica. I suoi oggetti, le sue pubblicità e così via, ci danno un'idea del suo talento creativo e fantasioso, a volte penso anche ironico. In “Colpo di vento” o in “Natura morta accesa”, o in “Rotazione di ballerina e pappagalli” o in uno qualsiasi dei suoi arazzi o gilet o nel progetto per un Padiglione della Venezia Tridentina alla Fiera di Milano, o ancora in “Architettura di gobbo” scultura creata con sagome di metallo piegate e assemblate, o in quelle assemblate in legno e colorate, giusto per fare qualche esempio della sua vasta produzione, possiamo anche riscontrare influenze cubiste, surrealiste, persino un po' dadaiste, ed anche di Escher, tutte puntualmente rielaborate nel personalissimo Futurismo di Depero. Guardando le sue immagini si entra in un mondo magico narrato con immagini fantastiche.
                                                                                                                                       Maresa Sottile

martedì 4 marzo 2014

Arte ed Economia

Dario Franceshini, nuovo Ministro ai Beni Culturali, subito dopo la sua nomina ha dichiarato ai giornalisti che il suo è un Ministero di grande importanza per la ripresa economica di questo Paese. Sono molto contenta che un Ministro del mio Paese faccia questa dichiarazione, ma il punto è: gli faranno fare quello che dovrebbe fare, e soprattutto se pensa realmente quello che ha detto. Infine se ha davvero le idee chiare e le capacità per rendere reali le sue parole. Purtroppo siamo tutti un po' disincantati dopo decenni di promesse, non realizzate, dei politici. Inoltre, in un paese che per tanto tempo ha fatto così poco per la cultura, quasi ritenendola un optional e neanche importante e redditizio, si riuscirà mettere in gioco questa opportunità? Tutte le attività culturali si dichiarano in crisi. L'editoria cartacea è alla frutta, ne ho parlato con un giornalista che lavora da quarant'anni in una grande casa editrice; teatri di prosa e lirici vivono una profonda crisi, il cinema altrettanto. Mancano fondi. Ma, ovviamente quello che mi interessa di più è quel patrimonio artistico che l'Italia possiede e che non è davvero curato e sfruttato come un bene comune che può produrre, come dice il Ministro, economia, posti di lavoro. Si parte da lontano con questa situazione. L'Italia che per secoli è stata il centro artistico dell'Occidente, che ha dato grandi artisti, quando non geni, ad un certo punto ha perso il suo primato, cadendo in un'irrazionale stato di trascuratezza. A volte persino i grandi geni del passato e le loro opere sono finiti nel dimenticatoio. Il disinteresse ha avvolto quel mondo che ci ha reso primi e i più grandi per secoli. E una parte di questa colpa è stata anche di coloro i quali si occupavano dell'argomento. Ad un certo punto la Storia dell'Arte è diventato un argomento solo per “iniziati”. Ci sono stati anni in cui leggere un libro di Storia dell'Arte, anche scolastico, era quasi un impresa. Come se gli argomenti che trattavano non potessero essere divulgati al volgo, appunto. Questo ha creato una barriera tra gli addetti ai lavori e coloro i quali avrebbero potuto avvicinarsi all'argomento. Per fortuna alcuni lo hanno capito ed ora, anche chi non è molto attrezzato, ha la possibilità di leggere opere comprensibili Altra grande colpa, se non la principale, è stata quella di dare pochissime ore di insegnamento della materia nelle scuole. Ho avuto figli al Classico, uno dei migliori della città. Ho toccato con mano quello che facevano ed il loro grado conseguenziale di preparazione. Ad un certo punto la Storia dell'Arte è stata messa nei programmi delle Scuole Medie, naturalmente erano più che altro nozioni per ragazzini, eppure molti insegnanti continuavano a farli disegnare 'per esprimere la loro creatività', ma non svolgevano l'altra parte del programma. E anche questo l'ho constatato di persona. Anche se comunque non escludo che ci siano stati insegnanti preparati e coscienziosi. Adesso poi è stata addirittura tolta dai programmi. Eccellente! E allora come si può facilmente comprendere la maggior parte della gente ha pochissima cognizione, e sempre meno ne avrà, di quale sia il nostro patrimoni artistico, e, di conseguenza, la possibilità di capirne l'immenso valore che ha, compreso quello economico. D'altra parte abbiamo avuto un ministro dell'Economia che ha detto, tempo fa, che con la cultura non si mangia, un tipo molto snob e anche con l'erra moscia, che mi pare sia arrivato dove è arrivato perché dicevano fosse preparato. Vorrei tanto sapere quanto ha studiato, lui. Noi non abbiamo miniere, non abbiamo il petrolio, né il gas. Abbiamo da sempre, però quattro grandi ricchezze: l'Arte, la Natura, l'Artigianato e l'Agricoltura. Erano queste grandi ricchezze che dovevamo curare. Oltre tutto si mangia sempre, anche in era tecnologica. Uscendo un po' dal tema, a proposito di tecnologia, vorrei dire una cosa, divertente se non fosse, a mio parere, quasi tragica. Ogni giorno di più stanno informatizzando tutto, non si va più in molti uffici, tanto si può fare col pc. Ad esempio i pensionati hanno la possibilità da casa di sapere tutto tramite computer sulla pensione e quant'altro. Ma si è chiesto qualcuno se 'gli anziani' sanno usare il pc, o addirittura se lo hanno? Ma glielo può fare il figlio, la nipote! A parte che che spesso figli e nipoti non hanno tempo o voglia, ma chi è solo? Chiudiamo questa parentesi, che però secondo me dimostra come spesso la razionalità non anima le nostre azioni. Della prima ricchezza. l'Arte, grossomodo, abbiamo già detto; della Natura cioè del paesaggio abbiamo, dal dopoguerra in poi, fatto spesso scempio; l'Artigianato è andato a rotoli, ricordiamo che per gli artigiani era sempre più difficile trovare qualcuno che volesse imparare e lavorare nel settore, poi la crisi economica ne ha costretto migliaia e migliaia a chiudere; l'Agricoltura è stata mandata a rotoli come sappiamo tutti dopo la guerra, con la riforma agraria fatta coi piedi e l'industrializzazione, anche se fortunatamente oggi molti giovani stanno cercando di rianimarla. Concludendo, noi abbiamo sprecato, la maggior parte del nostro patrimonio tra incuria, ignoranza, incompetenza e ci metterei anche burocrazia. Abbiamo sciupato in parte il nostro potenziale, le nostre ricchezze e la maggior parte di noi non ne ha neppure coscienza. E questa è una vera e grande tragedia nazionale. Speriamo che questi piccoli ragionamenti, quasi elementari, che ho fatto, aiutino la dichiarata (buona) volontà del Ministro. Con molti auguri a lui ma soprattutto a noi italiani.
                                                         Maresa Sottile

giovedì 23 gennaio 2014

Una divertente lettera scritta da Francesco Mastriani (1819_1891 Na. Giornalista, scrittore) a sua madre

Carissima Madre, Il tempo è sempre tempo, e in questi tempi di cattivo tempo si perde tempo e non si ha tempo di acquistare un poco di tempo per mettere a profitto il tempo. Ora, per non perder tempo,essendo che il tempo non ci permette di recarci da voi a tempo, avrete la bontà di avvalervi di un minuto di tempo, per ammazzare il tempo, e farvi un mercante, giuoco adatto al tempo. Mi manca il tempo di scrivervi più a lungo. Salutatemi Papà. Venite con Emilia e Giulia. Vostro devotissimo figlio Se non avete tempo di venire, o il tempo non ve lo permette, avrò il tempo di venire da voi Francesco Mastriani

domenica 12 gennaio 2014

La grande Mostra di Rodin a Palazzo Reale di Milano articolo su ALBATROS MAGAZINE di gennaio 2014

Veramente una mostra molto ricca quella dedicata ad Auguste Rodin al Palazzo Reale di Milano, titolata 'Il marmo, la vita' e inaugurata il 17/10, e che sarà visitabile fino al 26 gennaio. Nella Sala delle Cariatidi, su impalcature metalliche che sostengono lunghe assi di legno (allestimento di Didier Faustino) sono esposte 62 opere, prestate da Musei francesi, in testa il Museo Rodin, testimonianti il percorso dell'artista, che partendo dallo studio di Michelangelo e adottandone il 'non finito', diede una svolta alla scultura europea del suo tempo. E proprio a Milano, al Castello Sforzesco, si può ammirare la dolorosa 'Pietà Rondanini', nella quale il 'non finito' michelangiolesco raggiunge il punto più alto nel suo valore artistico di espressione dell'umana sofferenza, e che si può vedere proprio in collegamento con la Mostra di Rodin con un biglietto ridottissimo, Nato nel 1840 a Parigi, Rodin frequentò la Scuola Nazionale di Arti Decorative e dopo un lungo apprendistato presso vari artisti, perché bocciato all'esame di ammissione alla Scuola di Belle Arti, fece un viaggio in Italia nel 1875 e fu affascinato da Michelangelo, del quale adottò per sempre il 'non finito', che però in lui assumerà una valenza diversa da quella dell'artista italiano. Attraverso questa tecnica, creando composizioni di piani, spesso in una forma chiusa e dalle linee e forme tese, e al contempo in forte movimento, creando forti chiaroscuri, Rodin liberò la scultura dalla glacialità del neoclassicismo. Col tempo il 'non finito' 'invaderà' l'opera di Rodin, forse per le influenze impressioniste della pittura che esplode a Parigi nella seconda metà dell'800, e della quale sarà testimone, lasciando, sempre più, parti dell'opera appena affioranti dal marmo e appena delineate. L'effetto del 'non finito' di Rodin è quasi l'opposto di quello del 'non finito' michelangiolesco. Mentre le opere del genio italiano esprimono l'oppressione della materia dalla quale l'Uomo tenta con fatica di liberarsi, nell'opera di Rodin dalla materia grezza sorgono, si materializzano immagini articolate, che si muovono con leggerezza, si contorcono, si avvinghiano, si espandono. In esse si ritrovano le esperienze dell'arte classica, ma anche del romanticismo, nonché una carica piuttosto sensuale ed erotica e anche qualche anticipo di surrealismo ed espressionismo. Nella sua vita, morì a settantasette anni nel '17, Rodin lavorò molto, ebbe molte commissioni ufficiali tanto da arrivare ad usare dei collaboratori, eseguì molti monumenti come 'I borghesi di Calais', il ritratto di Honoré de Balzac, 'Il pensatore', ma certo questa mostra è un panorama ampio del suo lavoro, infatti è la più ricca mai realizzata. La prima opera che si incontra nella Mostra è proprio 'L'uomo col naso rotto', ritratto del grande toscano, che gli suggerì la chiave della sua cifra artistica. Ci sono poi il famosissimo 'Il bacio', 'Le mani di Dio', 'Amore e Psiche' in varie versioni, ritratti, 'Illusione, sorella di Icaro', 'Paolo e Francesca ' e tante altre. Davvero un ricco excursus del suo lavoro, che permette al visitatore di farsi una idea ben precisa dell'opera e dello stile dell'artista. La mostra arriverà alle Terme di Diocleziano a Roma.
                                                                                         Maresa Sottile

Pollock e gli Irascibili Interessante Mostra a Milano Articolo su ALBATROS MAGAZINE di Gennaio 2014

Non c'è dubbio che Milano ogni anno proponga splendide e importanti mostre davvero da non perdere. Nella seconda metà di quest'anno ce ne sono quattro, tutte a Palazzo Reale e tutte importanti e soprattutto interessanti: Rodin Il marmo, la vita, fino al 26 gennaio; Il volto del '900 da Matisse a Bacon, fino al 19 gennaio; Warhol, dalla Collezione di Peter Brant, fino al 2 marzo; Pollock e gli Irascibili, fino al 24 febbraio. Pollock e gli Irascibili è, indubbiamente, una mostra molto interessante, curata da Carter E. Foster e Luca Beatrice, che comprende la famosa fotografia di Nina Leen pubblicata da Life nel gennaio del '51, che rappresenta quindici dei diciotto pittori, chiamati dall'Herald Tribune 'irascibili' per la protesta, espressa in una lettera dell'anno prima al direttore del Metropolitan Museum di N.Y., per essere stati esclusi da una grande mostra sull'arte contemporanea americana. Nella foto ci sono quindici dei diciotto firmatari, vestiti da banchieri. Al centro Jackson Pollock, intorno a lui tra i più famosi artisti americani del '900: Rothko, de Kooning, Brooks, Newman, Motherwell, Tomlin, Ernst, Still, Baziotes, Reinhardt, Paussette-Dart, Stamos, Gottlieb e la Stern, sola donna del gruppo. Jackson Pollock è il personaggio principale della mostra e il suo famoso Untitle 27, opera lunga tre metri, per questo non facilmente trasportabile, è una delle sue più importanti. La pittura di Pollock vista dal vivo emana un fascino che le riproduzioni fotografiche non gli rendono: le sue tele hanno un fattore emotivo che coinvolge. Nell'arco di poco più di dieci anni l'originalità del suo pensiero e delle sue opere sconvolge il mondo artistico americano ed europeo. Il suo dripping, sgocciolamento dei colori, e l'uso di strumenti non tradizionali, crea quella che è chiamata action painting, nella quale la pittura nasce dal gesto, dal corpo. Ma il gesto, il corpo non fanno che riflettere lo stato emotivo dell'artista che lo esegue, come una scrittura dell'anima. Ancora una volta un innovatore cambia modi e contenuti dell'arte. Quell'intrico di colori, che sembrano non rappresentare nulla, hanno invece forte valenza espressiva e grande pittoricità. Pollock non dipinge più sul cavalletto, stende a terra le sue, spesso ampie, tele e ad un certo punto del suo lavoro usa addirittura colori industriali, eppure le sfumature dei suoi colori sono spesso preziose. Nella New York della prima metà del '900 si concentra e riparte l'arte del nuovo secolo. Grandi artisti dell'epoca vi passeranno, in fuga da un'Europa in preda alla follia hitleriana, diventando ciò che era stata Parigi nell'Ottocento. In questo clima, ancora una volta un artista, Pollock, cambierà i modi espressivi dell'arte, che spesso si ferma nella ripetitività di precedenti innovatori, creando una sua cifra inconfondibile, ma che al tempo stesso servirà da imput ad altri artisti che riusciranno a loro volta a creare, nello stesso filone, un proprio linguaggio, come de Kooning, Kline, Newman, Rothko, Hofmann, e altri, presenti nella mostra con opere molto interessanti. Pollock ebbe molto successo, anche se non diventò mai ricco, supportato anche da una delle più generose e lungimiranti 'mecenate' del '900, Peggy Guggenheim. Jackson Pollock, nato nel '12 nel Wyoming, muore nel '56, a soli quarantaquattro anni, al volante della sua auto. L'incidente fu causato dal suo stato di ubriachezza.
                                                                                                                           Maresa Sottile