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sabato 12 dicembre 2015

Ferdinando Mastriani, pittore napoletano quasi sconosciuto. Una difficile ricerca

Di Ferdinando Mastriani (1838/?), pittore napoletano dell''800, le notizie sono assai poche. Alcuni dicono sia fratello di Francesco, Mastriani, lo scrittore, ma la cosa è impossibile. Ferdinando il pittore è nato nell'838, Francesco nel 1819 e suo fratello Ferdinando nel '18 essendo il secondogenito e Francesco il terzogenito. Quindi non sono d'accordo con questa attribuzione. Credo che Ferdinando fosse il figlio di Raffaele (n.1797), funzionario borbonico dei dazi, scrittore e più importante corografo a livello europeo, cugino di Filippo padre di Francesco.


Nella famiglia Mastriani l'albero genealogico è molto complesso, si ripetono nomi e ci sono molti matrimoni fra consanguinei. Ad esempio lo scrittore Francesco sposò la figlia del cugino del padre, Raffaele, funzionario borbonico che scriveva. Filippo, padre di Francesco, ebbe sette figli di cui uno si chiamava Ferdinando nato nel 1818, un anno prima di Francesco e molti hanno detto che era lui il pittore. Altro non si sa, Raffaele ebbe un figlio nato nel 1838 con lo stesso nome, e sembra più logico che invece fosse lui il pittore in quanto nel 1850 risulta dall'Archivio storico dell'Accademia di Belle Arti che vi fosse iscritto. Sembra più logico che fosse lui a dodici anni ad iscriversi, avendo probabilmente dimostrato la sua attitudine (anche il padre disegnava molto bene) e non esistendo, come oggi, il Liceo Artistico ma solo l'Accademia. Il Ferdinando fratello dello scrittore nel '50 aveva 32 anni e non ci sembra possibile si iscrivesse all'Accademia. Inoltre il figlio di Pia Mastriani, figlia di Raffaele, possedeva molti quadri del pittore e diceva che erano opera del fratello della madre, Ferdinando. Gli eredi di Francesco invece hanno molte notizie e materiale sul loro avo, ma non posseggono alcuna opera di Ferdinando. La convinzione che Ferdinando Mastriani pittore fosse il cugino-cognato di Francesco appare sempre più giusta. Sono giunta a questa conclusione per le date e perché il figlio, ormai defunto, di Pia, sorella di Ferdinando, il pittore, fece quell'affermazione, indicando anche il ritratto della madre tra le opere in suo possesso. Francesco non aveva sorelle di nome Pia, ma Raffaele aveva una figlia Pia e un figlio Ferdinando. Quindi Ferdinando Mastriani pittore non è fratello ma cugino di 2° grado, (o nipote come si diceva a quei tempi, essendo Filippo e Raffaele - loro genitori- cugini) del famosissimo e amatissimo dai napoletani, ma sfortunatissimo, giornalista e scrittore assai prolifico, Francesco Mastriani.
  Sorte di famiglia perché consultando molti libri sulla pittura napoletana dell'epoca  Ferdinando non è mai citato, tranne che in Pittori a Napoli nell'Ottocento di Roberto Rinaldi Libri&Libri con poche righe. Nella Biblioteca B. Molajoli a Castel Sant'Elmo, che è dedicata proprio alla Storia dell'Arte, si trovano sole poche notizie su una Mostra della Promotrice del 1867 di Napoli con alcuni commenti del pittore Del Bono che era in giuria. Ferdinando ha partecipato a varie di queste Promotrici a Napoli, dal 1867 fino 1879 quasi tutti gli anni, ma anche a Torino, Firenze, Genova, Milano e si conoscono anche alcuni titoli di sue opere: Pia de' Tolomei ed il marito Nello che le toglie l'anello che ho potuto visionare è del suo primo periodo pittorico, ma già nel '72 i titoli delle sue opere cambiano: Una confidenza, Ortensia, Il mio modello... Si sa anche che era molto attivo a Napoli e provincia, una sua opera eseguita per la Congrega dei Frati che venera San Sossio, l'unica della quale si abbia notizia, trafugata nel 1990 da Frattamaggiore e non ci sono immagini fotografiche di quest'opera, della quale si sa solo grazie al libro dello studioso Franco Pezzella: 'Presenze pittoriche a Frattamaggiore tra la 2°metà dell'800 e il 1° cinquantennio del '900. Ferdinando Mastriani a 12 anni, nel 1850, fu iscritto ai corsi dell'Accademia di Belle Arti della città, quindi la sua professionalità è accertata. Come è accertato che ha iniziato la sua carriera artistica in modo accademico seguendo la tendenza artistica neoclassica del tempo. Stile che oggi non gode di grande stima da parte di storici e amanti dell'arte. Ma in quel tempo un giovane artista non poteva che seguire quello stile di pittura. Poi è avvenuta una svolta nel lavoro di Ferdinando. Come ciò sia avvenuto non ci è dato saperlo. E' andato a Parigi dove gli Impressionisti andavano imponendosi, o ha solo saputo della svolta che la Pittura stava prendendo? O maturando ha trovato istintivamente la propria strada, il proprio modo di esprimersi? Avendo visto una sua opera neoclassica ho potuto notare il cambiamento palese da una pittura enfatica ad una pittura intimista, vicina al suo tempo anche nella tecnica pittorica.
Ho anche avuto la fortuna di vedere una serie di sue opere in una collezione privata e ne sono rimasta colpita. Le ho trovate tra le più belle che abbia mai visto della pittura napoletana dell'epoca. Nella serie di quadri che ho visionato, una trentina, molti ritratti anche piccoli come miniature, per lo più di giovani donne, ma anche maschili, compreso uno di Garibaldi. Che poi non si sa se lo fece dal vivo data la presenza del Generale in città, o da una fotografia. Quadro che è anche inserito nello sfondo di un'altra tela con figura femminile. E donne, donne malinconiche, donne allegre e qualche scena, di quelle dette 'di genere', quasi sempre interni appena accennati e anche un paio di esterni non molto definiti: la sua attenzione è sempre rivolta alle persone. Tutto l'interesse è sui volti, sulle posture dei personaggi per studiare lo stato d'animo. Una pittura piuttosto intimista.
 Oli, ma anche tempere su tela. Dall'eroismo retorico delle pitture accademiche è passato allo studio, attraverso i volti e gli atteggiamenti, dell'intimo dei personaggi che ritrae, la pennellata è veloce, i particolari dettagliati svaniti, dominano i grigi, i bruni, ogni tanto i colori si addolciscono nei cilestrini e qua e là squilla un rosso o un bianco. Il Maestro Armando De Stefano che vide con me questi quadri, disse che certamente il Mastriani aveva visto gli Impressionisti. Non lo sappiamo e non capiamo perché della sua vita non ci siano notizie. Su Internet vi è un suo paesaggio montano, forse un viaggio, un soggiorno in qualche località montana, e anche un paesaggio di Ischia con una antica torre. Vi sono anche delle pitture nella chiesa di Santa Restituta a Lacco Ameno (Ischia) con storie della vita della Santa attribuite a lui. Ma la discrepanza fra queste immagini e quelle che conosco, mi ha lasciato molto perplessa. Qui i colori sono chiari, quasi elementarei, le composizioni e le figure non hanno nessun elemento che le accosti alle tele da me visionate. Una pittura ingenua, popolare, nelle forme, nei colori, nelle composizioni, quasi da ex-voto. Il mistero di questo pittore mi appare sempre più fitto. E viene da porsi una domanda. Ma queste opere di S. Restituta sono di Ferdinando Mastriani? Non è la stessa mano dei dipinti che conosco. Ma siamo sicuri che si tratti della stesso pittore? Il nome è lo stesso ed anche l'epoca, ma forse si tratta di persone diverse. In una famiglia talentuosa come quella Mastriani, dove oltre Francesco molti altri nel tempo hanno scritto e dipinto, anche se non raggiungendo la notorietà di Francesco, perché non potevano esserci due pittori? Magari quello di Ischia è il fratello di Francesco, Ferdinando. Su vari siti le tele di Santa Restituta sono attribuite a Ferdinando Mastriani, ma sui siti della chiesa, che è molto importante sull'isola, l'attribuzione dei dipinti è a Francesco Mastroianni, un modesto pittore, forse locale. Ed io credo che sia questa la giusta attribuzione e che Ferdinando Mastriani non abbia nulla a che fare con i dipinti della chiesa ischitana, per sua fortuna. Mastriani e Mastroianni sono due cognomi spesso confusi tra loro. Sullo scrittore sappiamo tanto della vita, dei suoi guai e delle sue delusioni, il figlio Filippo ha documentato tanti momenti della sua storia, ma non solo. Della storia di Ferdinando Mastriani pittore non sappiamo nulla e di quella artistica pochissimo. Non si sa se si sia sposato, cosa che credo improbabile e non ebbe figli. La sua memoria non fu curata da alcuno come avvenne per Francesco. Non aveva fratelli ma solo tre sorelle, quindi nessuno che si interessasse della memoria dell'artista come fece Filippo col padre Francesco. Non era compito femminile nella mentalità del tempo  fare certe cose. Sulla sua vita privata ho trovato solo un libro con scritti di vari personaggi, compreso Francesco Mastriani, che Ferdinando dedica ad Amina Boschetti ballerina classica del San Carlo che diverrà étoile all'Opera di Parigi e sulla quale scriverà anche Baudelaire. Un amore o un'avventura? Non ci sono date. Comunque la danzatrice aveva due anni più del Mastriani. Ciò che ho scritto è documentato da vari eredi Mastriani, che mi hanno fornito materiali e notizie, dal Fondo Mastriani creato dalla donazione che il figlio di Pia Mastriani fece alla Biblioteca Nazionale di Napoli o da personale conoscenza.
                                                                                 Maresa Sottile

                                              


 
 


sabato 7 novembre 2015

MILANO EXPO 2015 da una visitatrice innamorata dell'Arte

Sono andata a visitare l'EXPO e ne sono contenta. Un evento di rilievo al quale mi sarebbe dispiaciuto non partecipare. Ed è stato bello. Anche se ho delle critiche da fare, come in fondo penso sia per qualsiasi cosa ed è anche giusto. Però voglio cominciare dalle cose positive, belle, almeno a mio parere. Il tema dell'Expo è stato “nutrire il pianeta, energia per la vita”, quindi il cibo. Entrati si è accolti da un immenso e lungo viale, il Decumano, coperto da teloni sfalsati che creano dei piacevoli giochi di piani dritti o un po' curvi, ad altezze diverse che riparano i visitatori da sole e anche pioggia, ai lati i Padiglioni. I Padiglioni sono stati allestiti da gran parte dei Paesi del mondo, 127, dai più noti, a quelli poco conosciuti ed anche piuttosto piccoli. Ma ognuno ha detto la sua sui propri prodotti, coltivazioni, tradizioni. Ognuno dicendo la sua sul tema. E questo era scontato. La cosa più interessante secondo me, e credo secondo tutti, sono le strutture esterne dei padiglioni, alcune straordinarie per inventiva, altre eccentriche, qualcuna anche brutta o anonima. Dipende, penso, anche dai mezzi economici a disposizione. Ma qualcuno anche sulla struttura più semplice ha saputo trovare soluzioni interessanti e piacevoli, come l'Ecuador, che ha ricoperto un semplice parallelepipedo di frange di perline colorate di vetro che riproducono i disegni tipici dei tessuti del paese con un effetto piacevolissimo, lucente ed elegante. Il Padiglione, molto grande, che accoglie il visitatore appena entrato è il Padiglione Zero su cui spiccano le parole DIVINUS HALITUS TERRAE, che è il padiglione nel quale è coinvolto l'ONU. Davvero affascinante, in qualche momento stupefacente, col suo ingresso in una sala molto grande e molto alta in legno, nella quale è incluso l'enorme tronco di un albero - che buca il soffitto e la cui chioma svetta su uno dei tetti delle unità della grande struttura – con pareti con archi classici e cassetti chiusi e aperti che contengono metaforicamente il sapere e i prodotti. E poi una serie di passaggi in varie sale con ricostruzioni di habitat naturali, pareti con colorate composizioni astratte alla Mondrian di prodotti della natura, con immagini e scritte digitali sulle problematiche del cibo, delle multinazionali ecc. ecc., fino ad una sala con un enorme schermo semicircolare su cui vengono proiettate splendide immagini della natura e dei prodotti in cui ci si sente proiettati, come un campo di grano agitato dal vento da cui ci si trova avvolti. Davvero tutto molto bello. Bellissimo anche all'esterno: una serie di costruzioni collegate tra loro di forma conica dalle pareti arrotondate e ricoperte da una struttura lignea a fasce distanziate. Fanno un po' pensare ai trulli nella forma e nell'effetto. Anche il Padiglione della Francia è bello, divertente. E' una forma curvilinea con più aperture e una struttura di travi di legno intrecciate e curvilinee e all'interno negli interspazi tra le travi c'è di tutto, di più: dal grano agli strumenti per la campagna, dalle pentole alle stoviglie, ai prodotti alimentari, ai vini, a tutto ciò che ha a che fare col cibo e i prodotti francesi. Mi sarebbe piaciuto visitare la Mostra ideata da Sgarbi sulla pittura e il cibo, ma anche lì coda troppo lunga. Bello il padiglione della Gran Bretagna con pareti con pannelli mobili che si aprono e chiudono in consecutiva e che sono ricoperti di piante poste in verticale: pareti verdi in movimento. Il padiglione Italia è enorme, tra i più grandi e tutto bianco. Non l'ho visitato -5 ore di fila – però ci sono entrata ed è molto bello, imponente ed aereo ad un tempo. Mi ha fatto pensare alla hall con un soffitto altissimo di un grattacielo, forse più bello all'interno che all'esterno con la soluzione dei vari corpi dell'edificio che sembrano impacchettati da chilometri di spago bianco che ogni tanto si allargano lasciando spazi geometrici vuoti, magari traversati da un solo filo, almeno a me così è apparso. C'erano delle statue antiche e moderne sparse nei suoi spazi. Una delle opere d'arte contenuta nel Padiglione è il Trapezophros, splendido basamento di mensola del IV sec. a.C., trovato e subito trafugato negli anni '70 in Puglia ad Ascoli Satriano e restituito all'Italia nel 2007 dal Paul Getty Museum di Malibù. Il punto è che non si può parlare di ogni padiglione sia che lo si sia visto solo da fuori o anche visitato. Sono 15.000 mq di esposizione e ci vorrebbe un libro per parlare di tutto. Ci sono strutture bellissime, alcune molto originali, molto difficili da raccontare. Indubbiamente è stato affascinante vedere le soluzioni adottate dai vari paesi per raccontarsi e parlare di cibo nel tempo, nelle coltivazioni, nelle proprie particolarità di prodotti. Alcune sono strepitose per creatività o per originalità. Ecco il problema dell'EXPO. Ci sarebbe voluta una settimana, almeno, per visitarla tutto. Sia per la vastità degli spazi, il numero dei Padiglioni da visitare, per non parlare delle 'code' per visitarli. Una vera follia 5-6 ore di fila. Cosa c'è stato di sbagliato? Anche per andare a mangiare o in bagno, file allucinanti. Mi ha salvato il bagno del ristorante, però nello stesso non bastavano tavolini e sedie. E anche per mangiare file, ovunque si provasse. Sapevano che ci sarebbero stati milioni di visitatori, più di centomila al giorno. Ci voleva qualche soluzione per queste cose, più consapevolezza di quanto sarebbe successo con una simile moltitudine di persone. Quanto al famosissimo Albero, vi dirò che personalmente l'ho trovato assai brutto, nonostante la sua “chioma” riproduca il geniale disegno di Michelangelo per la pavimentazione di Piazza del Campidoglio a Roma. Carino lo spettacolo di musica che regola gli zampilli d'acqua e le luci. Brutti quei fiori (di carta, di plastica?) che fuoriescono e si schiudono tra le parti della struttura. Almeno per me. Non l'ho visto di notte. Ne ho visto le fotografie. Bellissimi effetti di luce e acqua ma quando questi finiscono tutto svanisce. Per l'Esposizione del 1889 a Parigi fu costruita la Torre Eiffel. Un po' più di 37 m. e sta ancora là, anzi è diventato simbolo della città e uno dei monumenti più visitati e famosi al mondo, anche se i francesi non lo amano è però una grande attrazione ancora oggi. L'Albero non credo. Però nonostante le critiche che si possono indubbiamente fare, vi ripeterò che sono stata assai contenta di averla visitata e mi è piaciuta. Le cose positive e belle davvero tante. Hanno fatto nel complesso un gran lavoro, tutti.
                                                                        Maresa Sottile

domenica 18 ottobre 2015

Sonia (Rosenthal) Gordon Brown, scultrice.

Sonia (Rosenthal) Gordon Brown nasce a Mosca nel 1890 da antica famiglia russa di origine polacca. Portata per le arti figurative, la famiglia non la osteggia e studia con Nicolas Andrieff, poi a Parigi, dove si trasferisce con la famiglia, con Antoine Bourdelle, del quale diventa allieva prediletta. Guardando le opere del Maestro la lettura delle opere della G.B. diviene più semplice. Il temperamento impetuoso (artisticamente) del Maestro è ben recepito dall'allieva. La G.B. preferisce la scultura, sia in pietra che in bronzo. E' raro che le donne si dedichino alla scultura, in passato addirittura inammissibile. Infatti resta quasi unico nel '500 il caso di Diana Scultori Ghisi (vedi artic. Preced. sulle donne artiste del tempo). La famiglia si sposta nuovamente e va in America nel 1914, dove Sonia sposerà appunto mister Gordon Brown, nome col quale è conosciuta nella sua attività artistica. Donna di temperamento, colta, aperta e volitiva, nonché talentuosa, Sonia suscita simpatie e rispetto in chi la conosce e conserverà queste doti per tutta la vita. Insegna alla New School for Social Research di N.Y. La sua prima personale è del 1924 alla Galleria Kingore di NY. Prese parte alla prima Biennale Exibition Sculptores Watercolors and Prints e fu membro e poi Presidente della New York Society of Women Artists nel 1927. Il suo lavoro viene esposto nel Whitney Museum of America Art. Espose ogni anno, fino al 1953, con la Società degli Artisti Indipendenti Americani dalla loro prima Mostra. Firmataria della Scultori Guild nel 1937 con Berta Margoulies, Aroon J. Goodelman, Ehain Grass, Minna Harkavy, Milton Horn, Concetta Scaravaglione, Warren Wheelock, William Zoroch, vi espose dalla prima Mostra allestita in un terreno abbandonato di Park Avenue il 12/4/38 che ebbe ben 40mila visitatori paganti. Un vero successo. Il successo ottenuto fece sì che le opere venissero esposte dal 21/10 al 27/11 1938 al Brooklyn Museum. Leggendo questi eventi si capisce come negli Stati Uniti la condizione della donna artista nei primi decenni del '900 sia migliorata, grazie - bisogna riconoscerlo - alle stesse donne che nel frattempo hanno lottato per il voto, per i salari e via dicendo, ed anche alle stesse artiste che non hanno mai mollato. La G.B. divise il suo tempo tra famiglia, insegnamento alla New School for Social Research, scultura - aveva aperto uno studio in Mac Dougal Alley - ed attività per promuovere l'arte oltre che se stessa. I pochi scritti che ho letto su di lei sono sempre molto positivi sia sulla sua persona che sul suo lavoro. Dalle opere che ho visionato fotograficamente della G.B., l'influenza del maestro Bourdelle pare evidente, anche se appaiono meno legate allo stile naturalistico. Bourdelle era stato assistente di Rodin. La G.B. ha un tocco più moderno, influenzato probabilmente dalle mostre sull'arte africana e primitiva che a fine '800 e primi '900 influenzò gli artisti del tempo. La sua scultura a mio avviso risente anche della sua conoscenza dell'arte italiana vista nei suoi viaggi. Alcune sue opere hanno la monumentalità compositiva dell'arte romanica e nel contempo sono più avanti, moderne. Era indubbiamente anche molto brava come ritrattista, le sue teste non so se somigliassero davvero ai modelli, ma mi sembrano impregnate di un eroismo romantico e spirituale che le distinguono dal resto delle sue opere. Le opere della G.B. sono in molti Musei, come il Whitney Museum, il Brooklin Museum, lo Smithsonian Archives af American Art, ma anche in Francia a Reims, in Belgio, in gallerie private in Francia. Sappiamo anche che eseguì un ritratto di Eleonora Duse. Lasciò il marito ed i figli, penso ormai adulti, e venne a vivere in Italia, a Firenze, dove la troviamo nel '52. Nel '45 era rimasta paralizzata nel lato destro, ma non si era scoraggiata e tanto esercitò la mano destra che riuscì ad usarla nuovamente continuando così a lavorare e ad esporre. Era anche rimasta impedita nella parola, ma aveva un carattere indomito e non ci fu nulla, pare, che fermasse la sua attività artistica. Morì intorno agli anni '60. Ma nonostante tanto lavoro, partecipazione attiva alla vita culturale di NY, e probabilmente anche di Firenze, dove partecipò a varie Mostre, il suo nome e la sua opera sono ancora oggi poco noti. E' la solita storia, come tutte le sue colleghe anche se raggiunta in vita la notorietà e l'apprezzamento, morta venne dimenticata.
                                                                          Maresa Sottile

sabato 10 ottobre 2015

Mary Cassatt, la prima Impressionista statunitense

Anche Mary Cassatt (1844-1926) era una ragazza di buona famiglia. Come la protagonista del mio romanzo “Malefizio d'amore”, la calligrafa Esther Inglis, realmente esistita, la C. veniva da una famiglia ugonotta francese fuggita nel '600 in America per sfuggire alle persecuzioni. La famiglia l'aveva fatta viaggiare perché convinta che vedere il mondo fosse importante per una buona formazione culturale. Aveva visitato l'Europa, imparato francese e tedesco, preso lezioni di musica e disegno come si conveniva ad una giovane ricca della buona società. Però quando lei disse che voleva fare della pittura la sua professione fu meno aperta, non l'approvò né appoggiò, ma neanche l'avversò. E lei seguì la sua strada. Studiò sotto maestri noti, in America frequentò l'Accademia di Belle Arti di Philadelfia ma non le piacque il tipo di insegnamento. Espose delle opere ma non riuscì a venderle, rimanendo senza il denaro per poter acquistare i materiali per continuare a lavorare. Rimase inoperosa e depressa per qualche tempo, poi l'arcivescovo di Pittsburg le commissiona la copia di due opere del Correggio e le finanzia il viaggio in Italia. Tornata in Europa, esaurito il suo compito, si trasferisce a Parigi dopo dei viaggi per l'Europa. A Parigi, centro nevralgico dell'Arte nell'800, non potendo frequentare, essendo donna, l'Accademia, fu allieva di J. L. Gerome e conobbe Degas, incontrando così e frequentando gli Impressionisti ed esponendo nelle loro Mostre. Fu allieva anche di T. Couture e di C. Chaplin. Ma è Degas che le insegna il pastello e la introduce anche nella tecnica dell'acquaforte e della stampa, nella quale diventerà molto brava eseguendo opere molto belle. Diventa nota, tanto che americani collezionisti d'arte si rivolgono a lei per consiglio, così opere Impressioniste, traversano l'Atlantico per arricchire le loro collezioni. La Cassatt non si sposò, rimase molto legata alla famiglia e quando ritornò in Francia la madre ed una sorella la raggiunsero. Per quanto presa dalla sua passione artistica, la famiglia e gli amici furono per lei importanti, direi fondamentali. Anche in Francia ebbe difficoltà con le idee ufficiali dell'ambiente accademico che criticò con tagliente ironia. Dopo aver esposto nel '66 un suo lavoro al Salon, fu per anni rifiutata dal Salon e quando finalmente fu accettata nuovamente ma non espose per solidarietà a Degas che non lo era stato. Non potendo frequentare i Cafè, centri d'incontro di artisti e intellettuali, la C. frequenta in privato i colleghi e resta in contatto con alcuni di loro anche quando il gruppo degli Impressionisti si scioglierà. Alla prima Mostra degli Impressionisti a New York c'è anche lei con una sua opera. Continua ad esporre in questa città. Negli anni '80 è ormai discretamente affermata, vende e guadagna col suo lavoro. Nel 1904 le viene assegnata la Legion d'Onore. Un viaggio in Egitto nel 1910, la sconvolge quasi e reputa questa arte la più grande dell'antichità, ma al rientro è spossata dalle fatiche del viaggio. Si ammala comincia a perdere la vista e passerà gli ultimi dieci anni e più amareggiata da questa condizione che le impediva di lavorare, lei che tanto aveva lottato contro tutto e tutti per la sua vocazione artistica. La Cassatt è conosciuta come una pittrice Impressionista, ma in realtà non lo è poi tanto. Gli impressionisti dipingono en plein air la vita, i paesaggi, il movimento, la loro pennellata è rapida e a tocchi brevi per non perdere il 'momento' della luce, del movimento. Mary fa una pittura legata al mondo femminile, spesso alla maternità, abbastanza. Forse anche frutto delle Madonne studiate nell'arte italiana rinascimentale. Interni con mamme e bambine, molto raramente maschietti, bimbe, donne, nella loro vita quotidiana, quasi sempre in interni e statiche. La escludono dalla vita ufficiale dell'arte al maschile, lei esclude gli uomini dal suo mondo in una specie di rivalsa, o di disinteresse. Le sue composizioni pittoriche sono compatte, spesso usa i pastelli, colori luminosi e vivaci. Certo segue la nuova tecnica pittorica che si fa strada nel mondo dell'arte, ma nel contempo crea un mondo suo nel quale la donna è protagonista assoluta. E' la donna del tempo, relegata in un ruolo secondario, un mondo casalingo, salvata dall'amore materno. Non è la donna inquieta della Morissot. Ha trovato, secondo me, un equilibrio suo malgrado.

domenica 27 settembre 2015

Berthe Morisot Donne nella pittura dell'800

Stranamente nell'800 le donne artiste ebbero, a mio avviso, forse più difficoltà che nel '500 '600 e '700. Potrebbe apparire incredibile, ma l'avvento di una borghesia bigotta e conformista, meno lungimirante dei grandi mecenati precedenti, che nella cultura e nell'arte vedevano un loro punto di forza, prestigio e potere, rese difficile alle donne di esprimere liberamente le proprie attitudini. Gli stessi artisti uomini, che gestivano il mondo artistico, non erano sempre disponibili con loro. Penso che la concorrenza femminile li disturbasse. Nel XIX sec. Non troviamo casi eclatanti di artiste donne chiamate alle corti reali come nei secoli passati, riconosciute almeno in vita grandi artiste come accadde a tante: Sofonisba Anguissola (XVI sec.), Artemisia Gentileschi (XVI-XVII sec) o Rosalba Carriera (XVII-XVIII), Elisabeth Vigè Le Brun (XVIII-XIX sec.) solo per fare i nomi delle più note. In realtà sono molte di più che pian piano stanno risalendo la china della notorietà e fama, “ripescate” dagli storici dell'arte dall'oblio immeritato. E solo ad elencarle ci vorrebbero molte pagine. Nell'800 le donne che hanno raggiunto notorietà e riconoscimento del loro valore sono al solito poche, ad esempio le Impressioniste Berthe Morisot, Suzanne Valadon e Mary Cassat. Ma le vite di queste donne, caso strano, furono molto legate a quelle di uomini famosi. Berthe Morisot (1841-1895) parte avvantaggiata: è di buona famiglia, pronipote del celebre pittore Fragonard, il padre non la ostacola e la fa studiare, tra gli amici che si è fatta nell'ambiente artistico c'è Edgar Degas che la appoggia. Naturalmente non può frequentare l'Accademia d'Arte, ma studia con artisti come Corot. Conosce Eduard Manet, di cui fu modella e amante, lo presenta ai suoi amici impressionisti che lo ritengono il loro riferimento, ma in realtà Manet non si ritenne mai un pittore impressionista ed infatti non lo fu. Berthe ne sposerà poi il fratello Eugene Manet. Berthe espose sin dalla prima Mostra al Salon Nadar col gruppo degli Impressionisti nel 1874 e fu l'unica donna integrata nel gruppo. Essendo donna non poteva, come gli altri Impressionisti, dipingere molto all'aperto, en plein air, quindi i suoi soggetti furono per lo più ritratti, figure. Figure femminili della media e buona borghesia, ben vestite, per lo più in interni. Quello che mi colpisce di questi ritratti sono i volti delle donne: non sono mai sorridenti. C'è in loro un senso di solitudine, di mancanza. Anche quando guardano il loro bambino nella culla. Eppure la Morisot era bella, ebbe una vita piena di amori, amici ed anche successo. Ma i suoi quadri parlano di solitudine, di un'impalpabile insoddisfazione della condizione della donna e del ruolo impostole dal mondo maschile, le donne della M. parlano di inquietudine e insoddisfazione nonostante le apparenze. Parlano della condizione della donna che medita sulla sorte che il mondo maschile le ha imposto e che con molta fatica avrebbe cambiato. Il suo talento fu evidente ai suoi colleghi ed al pubblico, ma dopo la morte, esclusa una mostra per il primo anniversario della morte, fu poco ricordata e il suo lavoro non adeguatamente esposto e studiato. Oggi la si ritiene una artista di grande talento e si fanno mostre delle sue opere, in quel fenomeno che dura da alcun decenni in cui si vanno riscoprendo i talenti delle donne, il loro tributo all'arte figurativa, alle arti in genere ed al pensiero umano. Diciamo con un po' di amarezza che è diventata una moda fare ammenda davanti ai talenti sepolti dall'oblio.
                                Maresa Sottile

giovedì 17 settembre 2015

DONNE NELL'ARTE DELL'800 Premessa

Le donne che hanno avuta la ventura di avere attitudini artistiche, non voglio dire sventura o fortuna, hanno avuto vite complicate. La vita complicata lo è per tutti, per molti artisti in ogni campo è stata spesso molto difficile e tribolata, ma le donne hanno avuto in più l'handicap del loro sesso. Di che vogliamo meravigliarci se ancora oggi ci sono donne in alcuni paesi costrette ad indossare il burka e totalmente nelle mani del volere maschile? E da noi, paese evoluto e democratico, il femminicidio è quasi una pratica normale, ma non è questo il nostro argomento. Le donne, nonostante tutto, sono riuscite a dipingere, scolpire, scrivere, fare musica in ogni tempo (V. art. precedenti sulle donne nell'arte). E non solo, le donne che nel tempo hanno dimostrato le loro capacità in tutti i campi sono tante, ma come sempre se ne parla poco, quando non vengono del tutto dimenticate. Il punto è che ci sono state ed il loro contributo, pietra su pietra, dimostra capacità, attitudini, valore, nonostante la limitatezza di movimento che avevano. Presenza e importanza del loro naturale valore in ogni campo, pari a quelli maschili. Ma, come già detto, oltre alle problematiche che hanno dovuto affrontare sappiamo che hanno dovuto sùbire quasi sempre la dimenticanza, tranne qualche raro caso. Nel XIX sec., nel mondo inizia un cambiamento della società con l'avvento dell'industrializzazione, iniziata nel '700. Sta cambiando il mondo, ma non ancora per le donne. Cambia molto anche l'arte e tutto il mondo artistico. Ma anche in questo ambito per le donne le cose cambiano poco. Tutti conosciamo la rivoluzione dell'Impressionismo in ambito figurativo e sappiamo che tra gli Impressionisti vi furono anche delle donne. Tra le più note e davvero dotate ricordiamo Berthe Morissot (1841-1895) e Mary Cassat (1844-1926) e bisogna dire che furono ben accette dai colleghi, ma i loro nomi, dopo, furono molto pochi citati. Oggi sono nei musei e si fanno grandi mostre con il loro lavoro, ma è dovuto passare ancora quasi un secolo prima che ciò accadesse. La donna doveva ancora tribolare. Non poteva entrare all'Accademia di Belle Arti, infatti a Parigi (centro dell'arte in quel periodo) fiorirono decine di Scuole d'Arte per donne, ma con limitazioni, le donne non potevano comunque fare degli studi come quelli maschili. Quasi sempre aperte da pittori uomini, che si facevano pagare per istruirle. Comunque una donna aveva più difficoltà di un uomo per farsi accettare e questo è andato avanti per tutto l''800, osteggiato anche e spesso dagli stessi colleghi uomini, che diventati gestori del settore resero ancor più difficile l'inserimento femminile. L'atteggiamento maschile non è molto cambiato da un passato più remoto e questo anche nei primi decenni del '900. Solo che le donne avevano cominciato le loro lotte per parità e quant'altro. Un cammino lungo, pieno di difficoltà e tanta irrisione da parte maschile. Per la causa femminile molto fecero anche le scrittrici, vedi Virginia Wolff, (1882-1941) Simone de Beauvoir (1908-1986) e tante altre prima e dopo di loro. Nell'800 le ragazze della buona società, borghese e aristocratica studiavano disegno e pittura, (cosa che durava da secoli) ma potevano esercitarli, secondo la società, solo come hobby, come diremmo oggi. Fare le pittrici sposta il loro ruolo all'interno della famiglia e della società. In molti hanno scritto su questo argomento anche al tempo. Inutile quindi dire che una donna che volesse fare la pittrice, la scultrice, ma anche la scrittrice, trovasse molte 'resistenze' sia in famiglia che nella società. Ciò dura anche all'inizio del '900. Il duro lavoro delle Suffragette in varie parti del mondo, cambiò un po' le cose, ma bisogna arrivare agli anni '60/'70, perché le cose davvero cambino, con i famosi movimenti della liberazione delle donne. Anche se ancora oggi molti uomini in realtà non condividano la assoluta e totale parità della donna. Per secoli, oltre che sùbire il potere maschile, le donne furono discriminate anche dal punto di vista intellettivo, per non parlare che la chiesa diceva che le donne non avessero l'anima. In molti magari ammiravano molto un'artista, anche se poi dimenticavano il suo lavoro e il suo valore dopo la sua morte. Situazione difficile, piena di contraddizioni, tutta a scapito delle donne. Testimonianza del pensiero corrente fu il comportamento di Paul Claudel (1886-1955), famoso scrittore francese la cui sorella voleva fare la scultrice e studiò nello studio di Auguste Rodin (1840-1917). La ragazza, Camille Claudel (1864-1943), si innamorò del Maestro ed ebbe con lui una tormentata relazione. Il comportamento, molto maschile, del suo amante ed il dolore per la fine della storia con lui, le causarono quello che oggi chiameremmo 'esaurimento nervoso' (termine che in medicina non esiste) e una forte depressione. Il fratello e la madre, molto affettuosamente, la rinchiusero in una clinica per malattie mentali dalla quale non la fecero mai più uscire. Liberandosi così del turbamento che creava alla loro vita ed al loro status sociale. Caso simbolico, questo, di una situazione diffusa. Forse per noi è un po' difficile comprendere tutto ciò, ma di cosa ci meravigliamo? Milioni di donne in più parti del mondo ancora oggi vengono trattate come neppure nel Medioevo. Continua MARESA SOTTILE

martedì 18 agosto 2015

Esther Inglis Kello

Quando ho iniziato a fare ricerche sulle donne artiste del passato sono entrata in un territorio nuovo in cui la condizione della Donna nel tempo si è palesata in tutta la sua ingiustizia. Le donne artiste ci sono sempre, dico sempre, state, il punto è che, anche quando apprezzate e famose in vita, sono state dimenticate. Solo da pochi decenni gli storici e i critici dell'arte hanno iniziato ad interessarsi a loro. Ma non è solo la dimenticanza nemica delle donne. Mi sono chiesta perché tra le donne non vi siano state artiste del livello di Michelangelo o Leonardo. Credo che anche questo sia dipeso dalla visione maschile del mondo. Le donne non potevano studiare come un uomo, c'erano argomenti a loro proibiti. Certo non potevano studiare il corpo umano e non potevano rappresentare argomenti lontani dal mondo femminile. Molte dipinsero soprattutto autoritratti e ritratti perché era ciò che 'potevano' ritrarre. Non potevano salire sui ponteggi per affrescare, (anche se qualcuna l'ha fatto) quindi era sempre uno spazio ridotto sul quale poter dipingere i pochi elementi per loro trattabili. Spesso quando avevano successo venivano 'eliminate' con matrimoni o monacazioni. Anche se molte riuscirono egualmente a lavorare e a raggiungere successi anche economici. Certo per riuscire una donna deve far molto meglio di un uomo. E sono tanti i casi di donne sin dall'arte greca che pare guadagnassero anche più dei colleghi di sesso maschile. Ma a volte non potevano nemmeno incassare i propri guadagni, come la Anguissola: fu sempre il padre a ricevere i guadagni della figlia che il re di Spagna gli inviava, tanto che lo stesso la dotò lui per farla sposare. Insomma anche da questi brevi e pochi cenni si evince che la vita delle artiste non fu delle più semplici fino ai nostri tempi. Naturalmente ci sono le eccezioni, le 'fortunate' stimate pur essendo donne e lasciate libere di esprimersi da padri o mariti, che le stimavano molto. Gli esempi non mancano. Gli uomini intelligenti e sensibili ci sono stati in tutte le epoche. Uno di questi casi è quello di Esther Inglis (traduzione del cognome francese Langlois) sposata poi con un pastore scozzese: Bartolomew Kello, cognome che aggiunse talvolta al proprio per firmarsi. Cresciuta in un ambiente colto, il padre era insegnante e la madre una brava calligrafa, dimostrò grande attitudine nella calligrafia, ai tempi una vera arte, nella decorazione e nella fantasia, oltre ad essere una donna molto colta. La famiglia Langlois era fuggita da Dieppe in Francia dopo la strage degli Ugonotti. Invero non è certo se Esther sia nata in Francia o a Londra. La famiglia restò per vari anni a Londra, ma in realtà non vi ci si doveva trovare bene, perché riuscì a trasferirsi ad Edimburgo definitivamente. Di lei sappiamo che fu istitutrice del figlio del re, che lei e il marito furono inviati 'in prestito' alla corte di Elisabetta, per poi tornare dopo vari anni ad Edimburgo. Ciò che riguarda la sua vita l'ho raccontato nel romanzo “Malefizio d'amore” della Albatros Edizioni, acquistabile dalla casa editrice in rete. Ma la cosa importante non è la sua vita privata, per quanto piuttosto interessante, ma il suo lavoro. Bisogna dire che la Inglis non vendeva i suoi libri, ma li donava a ricchi e importanti personaggi per farseli amici e averne favori. Le sue opere entrarono quindi nelle case di ricchi e importanti personaggi della nobiltà ad iniziare da Giacomo VI ed Elisabetta I. I libri della Inglis sono molto belli, ben fatti ed hanno caratteristiche particolari. Sono ornati con disegni di fiori e a volte l'autrice ha inserito un suo autoritratto nella decorazione, sono precisi e così ben fatti da apparire stampati. Hanno inoltre la particolarità di essere molto piccoli, si parla di centimetri, e per le lettere millimetri, ed hanno delle copertine splendide da lei stessa ricamate (e ovviamente disegnate). Ciò faceva dei suoi libri una vera rarità, e tutta la nobiltà era desiderosa di possederli. Era, quindi, una donna di successo, stimata e ammirata, coadiuvata da un padre ed un marito che ne riconoscevano le grandi capacità artistiche, sia di fantasia sia di capacità manuali, e che ne promuovevano il lavoro. Inoltre la recente invenzione della stampa rendeva i libri scritti a mano oggetti del desiderio di ricchi e colti collezionisti. E la Inglis scriveva delle poesie dedicate al destinatario del dono, quindi personalizzava ancor più la sua opera. I calligrafi hanno creato opere splendide sin dall'Alto Medioevo. E' la loro opera che costituisce l'Arte di quel periodo. Calligrafi ed orafi sono i protagonisti artistici del tempo. E le loro opere sono parte del patrimonio artistico di ogni paese. La Inglis non si arricchì di certo nonostante tutti ammirassero e volessero i suoi libri. Inoltre forse non le giovò il matrimonio con un uomo dal nome segnato da una torbida tragedia. Si sa che quando morì era piena di debiti. Naturalmente fu dimenticata per tre secoli. All'inizio del '900 un'americana, Doroty Judd, durante un viaggio in Inghilterra la scoprì e scrisse un libro (introvabile) su di lei, ma fu poi un antiquario, David Laing, che la riscoprì ritrovando anche parte dei suoi libri, A. H Scott-Elliot e Elspeth Yeo fecero l'elenco definitivo dei manoscritti superstiti, che ora sono nei musei e biblioteche di tutto il mondo a cominciare da Londra ed Edimburgo. Sulla copertina del mio libro ho messo il ritratto della Inglis che è nel Museo dei Ritratti di Edimburgo. Che le sia stato fatto un ritratto significa che davvero Esther Inglis fosse, ai suoi tempi, un personaggio di spicco della società di Edimburgo. Quel ritratto lo deve ai suoi meriti artistici e non certo per il suo censo borghese neanche economicamente di rilievo. Voglio concludere dicendo che da quando ho incontrato la Inglis sulla mia strada, quattro anni fa, le notizie in Internet su di lei si sono moltiplicate, anche se quasi esclusivamente in inglese, a riprova dell'interesse crescente per il lavoro delle donne nel mondo dell'arte. Da noi non ho trovato che un libro in inglese, già consultato via Internet.
            Maresa Sottile

mercoledì 12 agosto 2015

Il Liberty al Vomero quartiere collinare di Napoli

Il Liberty è lo stile che si diffuse in Italia tra la fine dell'800 e i primi decenni del '900, e che in altri paesi prese nomi diversi: Art Noveau in Francia, Modernismo in Spagna, Jugendstile in Germania e Austria, Liberty in Italia…. Nel nostro paese il nome gli verrà dal cognome di un mercante londinese, che vendeva - e poi anche produsse - mobili, oggetti, tessuti con uno stile nuovo che da noi ebbe molto successo. Il negozio esiste ancora a Londra. Nel nostro paese questo nuovo stile ebbe anche un altro nome: Floreale, infatti in alcuni casi era caratterizzato da una accentuata decorazione floreale. Il Liberty nasce da varie situazioni: una reazione ad uno stile pesante e ripetitivo di forme precedenti che da noi ebbe anche il nome di stile Umbertino, vedi l'Altare della Patria (1911) a Roma; l'uso di nuovi materiali come il ferro e il vetro che aiutarono gli artisti occidentali, cioè d'Europa e Stati Uniti, a trovare nuove forme e modi di esprimersi e raccontare il mondo che cambiava. Un forte ecclettismo e decorativismo connotò il nuovo stile, che in realtà assunse forme diverse nei vari paesi, ma che stranamente ebbe uno spirito comunque comune e riconoscibile, anche nelle sue diverse forme. Ed è questa una delle caratteristiche dello stile, nato da una crisi profonda, uno stile forse di passaggio, che per molti anni è stato disprezzato, snobbato, e che da qualche tempo è stato rivalutato, almeno in parte, soprattutto nelle Arti Minori. Questo stile infatti coinvolse molto queste: arredamento (mobili e suppellettili), oreficeria, tessuti, che oggi hanno grande valore, basti ricordare gli oggetti di Lalique. Questo brevissimo cenno per entrare nel nostro argomento. Il Liberty al Vomero, nuovo quartiere borghese a Napoli. E subito dobbiamo dire che in questa città si coniugano sia il Liberty classico che possiamo trovare in ogni città, vedi Milano che ne ha una forma strutturalmente e decorativamente molto pesante, sia in una forma contraddistinta dalla decorazione molto più leggera caratterizzata da decorazioni soprattutto floreali. La prima costruzione Liberty a Napoli fu Palazzo Velardi, sulle Rampe Brancaccio, serpentina tortuosa che porta al Cso Vitt. Emanuele, alle spalle di via Filangieri e via dei Mille, le vie principali di un nuovo quartiere della borghesia ricca della città, costituitosi tra il XIX-XX sec., quasi parallele alla Riviera di Chiaia, ma più a monte. Palazzo Velardi è caratterizzato da una slanciata torretta poligonale che ad un tratto sorge in uno degli angoli dell'edificio, che nello sbilanciamento architettonico crea un effetto di ariosa leggerezza e slancio. Peccato la sua posizione sia poco visibile. Proprio in questo nuovo quartiere, e in quelli di Posillipo e del Vomero, si costruirà la maggior parte degli edifici Liberty napoletani, anche grazie all'opera dell'architetto piacentino Giulio Ulisse Arata (1881-1962). Questi firmò svariati palazzi nel quartiere e nella città dal 1906 al 1926. Poi lasciò definitivamente Napoli e operò in altre città. Degli edifici che Arata ha costruito a Napoli il più famoso è Palazzo Mannajuolo ad angolo fra via Filangieri e via dei Mille, in cui costruì una scala elicoidale davvero bella. Ma le sue opere furono molte, compreso il complesso delle Terme di Agnano. Il liberty di via dei Mille e di altri edifici d'epoca non è dissimile, anche se forse più leggero, da quello di altre città italiane. Invece è al Vomero, altro quartiere costruito in quegli anni, sulla collina del Vomero, appunto, che il Liberty a Napoli prende un'altra strada. Fu l'architetto napoletano Adolfo Avena (1860-1937) a costruire molto nel nuovo quartiere del Vomero, luogo assai ameno, areato e panoramico. La storia del Vomero è affascinante, è il quartiere in cui si trovano il magnifico Castel Sant'Elmo con il Museo del '900 napoletano (v. art. in archivio) ed un panorama a 360° sui golfi di Napoli e Pozzuoli e l'entroterra, il complesso conventuale di San Martino, con la chiesa più bella del Barocco napoletano (v. art. in arch.), in cui vi è un bellissimo Museo e un ancor più splendido panorama della città. La Villa Floridiana con il Museo della Ceramica, un Parco ed un panorama anche questo mozzafiato (vedi art. in archivio). Il Vomero in passato era campagna, in cui si coltivavano ottimi broccoli, costellata di case coloniche e che nei secoli divenne luogo di 'villeggiatura' dei ricchi proprietari delle terre circostanti, con la nascita di ville di cui resta quasi nulla, tranne la citata Floridiana. L'architetto Adolfo Avena realizzò vari villini privati e palazzine sulle arterie del quartiere, alcuni non più esistenti. La sua opera più nota è il palazzo a P.tta Fuga, di fronte alla stazione della Funicolare Centrale. E' un palazzo vasto e vario, in pieno stile Liberty, ma l'autore ha superato il rischio di noiosa pesantezza presente nei palazzi coevi. Le sue forme abbastanza eclettiche sono più leggere nella struttura architettonica e il colore giallo ocra chiaro aiuta molto. Il Palazzo è davvero bello, pieno di invenzioni e citazioni combinate armonicamente. Guardarlo è una continua sorpresa nella scoperta di soluzioni e particolari inaspettati. Ma Avena non fu il solo architetto del periodo a realizzare edifici Floreali nel quartiere. I palazzi delle vie più vecchie del Vomero, come via Luigia Sanfelice e via Palizzi, ma non solo (ad esempio a Salita Due Porte all'Arenella, quindi molto in periferia a quei tempi, c'è un bel palazzo in stile Floreale qualche anno fa restaurato e tutto dipinto di bianco ma oggi un po' rovinato da alcune manipolazioni), sono testimoni di un'architettura Liberty meno fastosa e monumentale ma molto piacevole e fresca in cui la decorazione floreale, oltre l'uso di gradevoli colorazioni delle strutture, rendono gli edifici estremamente piacevoli. Le strutture architettoniche seguono lo stile del tempo, ma sono molto più leggere e meno eclettiche, la trovata principale è la ricca decorazione soprattutto floreale con gessolini per lo più bianchi che sottolineano le forme architettoniche, movimentano e rendono assai piacevoli le facciate. E' un'interpretazione più familiare e vivibile di uno stile che comunque fece della ricca decorazione uno dei suoi punti di forza. Una delle grandi idee del Palladio, il famosissimo architetto veneto del '500, era che l'edificio fosse inserito nel paesaggio, e questo, a mio avviso, è pienamente realizzato nell'architettura Liberty del Vomero, un luogo (al tempo) ancora ameno.
                                                                                                                                   Maresa Sottile

sabato 25 luglio 2015

Il Centro storico di Napoli: da Via Costantinopoli a Piazza San Domenico

Nel Centro Storico di Napoli Via San Sebastiano è la via che unisce via Costantinopoli a via Benedetto Croce. Scendendo per via San Sebastiano, a sinistra, dopo la traversa cieca che porta all'ingresso di una scuola, l'Istituto Casanova, c'è un alto muro nel cui spigolo si vedono alcune figure scolpite in una rientranza apposita. Si tratta di un piccolo gruppo scultoreo del XIV sec., inserito nel muro di cinta dell'antico convento dei domenicani che affiancava la grande chiesa di San Domenico che si trova nella omonima piazza alla fine di via B. Croce, che si incrocia alla fine di Via S. Sebastiano, svoltando a sx. Prima di imboccare via B. Croce, sulla dx c'è la piccola chiesa di Santa Marta (XV sec.) purtroppo non sempre visitabile. Via Benedetto Croce porta il nome del grande filosofo (1866-1952) che vi abitò per gran parte della vita fino alla morte. La sua abitazione si trova ancora nello splendido Palazzo Filomarino (XIV-XVI sec.), divenuta Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e Fondazione Biblioteca B. C.. Via B. Croce prima era conosciuta come Spaccanapoli e corre su quello che era il Decumano Inferiore. Siamo nel cuore della Napoli romana, medioevale, rinascimentale, barocca. Il palazzo Filomarino è sull'area adiacente a dove una volta c'era il convento domenicano, come gli altri che si trovano lungo la strada. Infatti il convento occupava una enorme area: da Pzza San Domenico a via S. Sebastiano, comprendente anche la parte ora Istituto Scolastico Casanova, di cui abbiamo già detto, che dal 2000 al 2002 e dal 2006 al 2011 ha avuto restauri che hanno ripristinato gli antichi splendori del convento e che è visitabile. La storia di questo convento è lunga e complessa, tra gli eventi più importanti c'è la presenza di san Tommaso d'Aquino e di Giordano Bruno che insegnarono nell'Università che era stata locata nel convento. Esternamente, testimone di questo enorme perimetro. l'unica cosa che ne rimane è quel piccolo gruppetto statuario con iscrizione, illeggibile dalla via. Via Benedetto Croce, Spaccanapoli, è la via più importante del Centro storico della città. Parte da p.zza Del Gesù, altra piazza bella è importante con la famosa chiesa del Gesù Nuovo, e appena imboccata sulla destra c'è la famosissima e bellissima Chiesa gotica di Santa Chiara, in parte distrutta durante la II Guerra Mondiale e restaurata negli anni '50. con il convento e il celeberrimo Chiostro in maiolica. Proseguendo una serie di palazzi storici a destra e sinistra, fino alla P.zza San Domenico. A dx, verso S. Domenico. Palazzo Mazziotti (costruito su parte del convento di S: Francesco delle Monache nel XIX sec.), Palazzo Carafa Roccella della Spina (fine XVI sec.), Palazzo Castelluccio (XVI sec.), Palazzo Carafa (XV sec.). A sx dopo Palazzo Filomarino, Palazzo Venezia (XV sec.), donato da re Ladislao ai veneziani quale sede dell'ambasciatore. Sulla Piazza S. Domenico oltre all'antica chiesa si affacciano tre grandi palazzi nobiliari: Palazzo Petrucci (XV sec.) a sx, Palazzo Saluzzo di Corigliano (XVI sec.) alla dx., Palazzo Sangro di Casacalenda (XVIII sec.) di fronte, con la famosissima pasticceria Scaturchio, che produce un cioccolatino dal nome Ministeriale. Questo dolce fu creato da Giovanni Scaturchio per la cantante Fougez. Ebbe un gran successo, e Scaturchio, per ottenere di diventarne fornitore della casa reale seguì, per anni, pratiche ministeriali estenuanti, andando su e giù per i Ministeri, appunto, da qui il nome. Dopo la Piazza, Piazzetta Nilo con la Statua del Nilo, detta il Corpo di Napoli, e la strada di Spaccanapoli continua col nome di San Biagio dei Librai. A pochi metri più su di S. Domenico, nella traversa Francesco De Sanctis, c'è la Cappella di Sansevero (XVI-XVII sec.) con il famosissimo e straordinario Cristo Velato del Sanmartino ed altre meraviglie e storie e leggende affascinanti. Al centro della Piazza una grande guglia coronata dalla statua del Santo eretta dopo la peste del 1656 da Cosimo Fanzago, poi completata da Domenico Antonio Vaccaro nel XVIII sec. Quanto a San Domenico Maggiore, la cosa particolare è che sulla piazza si vede il suo abside, affiancato da una scalinata che portava alla preesistente piccola chiesa di San Michele Arcangelo a Morfisa, poi inglobata in S. Domenico, e oggi fa accedere alla parte posteriore dell'edificio. Questo abside appare come una torre merlata sostenuta da pilastri-contrafforti ed ha delle finestre che nella loro posizione creano uno strano effetto. L'abside sembra un volto che guarda la piazza. Quindi ciò che della Chiesa, tra le più importanti della città, si affaccia sulla famosissima piazza è solo l'abside. L'accesso alla chiesa è nel vicolo San Domenico: un portale fa accedere in un vasto cortile dal quale si entra finalmente in San Domenico. La chiesa fu costruita tra il 1283/1324 per volere di Carlo II d'Angiò, quindi in stile gotico, ma come per tutte le grandi costruzioni i tempi furono lunghi e i rimaneggiamenti molti attraverso i secoli. Molti gli artisti che vi lavorarono e che vi lasciarono le loro opere. Poche centinaia di metri di strada, secoli e secoli di storia e di arte, e non è che un piccolo esempio di quello che offre la città di Napoli, oltre al Golfo ed ai suoi panorami mozzafiato.
Maresa Sottile

martedì 7 luglio 2015

Le tele di Caravaggio nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma

San Luigi dei Francesi è una bella chiesa francese in stile barocco alle spalle di Piazza Navona, piena di tele sugli altari e alle pareti delle cappelle laterali, come tante se non fosse per l'ultima cappella a sinistra: la Cappella Contarelli. Lì ci sono le tele dipinte da Michelangelo Merisi (1571/1610), il Caravaggio e il discorso cambia. Anche un profano si rende conto di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso ed eccezionale. Le date di inizio e di termine dei dipinti della Contarelli sono molto controverse, come del resto tutta la storia di questi dipinti è assai movimentata. Lotte con gli estranei e con se stesso resero la stesura delle quattro grandi tele piena di interruzioni e di cambiamenti. La Cappella Contarelli fu dedicata dal proprietario a San Matteo, e Caravaggio nei due grandi dipinti laterali rappresentò “La Vocazione di San Matteo” e “Il martirio” del Santo; sull'altare “San Matteo” che presumibilmente scrive il Vangelo. Fu proprio questa la prima tela dipinta dal Caravaggio, contestata dai frati e tolta dalla Cappella e dopo anni sostituita da una seconda versione che è quella che si ammira oggi. Il primo dipinto di “San Matteo” era troppo spregiudicato e controcorrente per i tempi perché i frati non la trovassero sconveniente. Infatti il Santo è rappresentato come un rozzo e ignorante contadino non abituato ad usare la penna tanto che un angelo guida la sua mano, “...ragazzaccio insolente, panneggiato in un lenzuolo a strascico come in un dramma sacro di teatrino provinciale...”, come dice Roberto Longhi, ed al tempo stesso troppo sensibilizzato per una chiesa. Nel farlo Caravaggio non ha tenuto nemmeno conto che Matteo, essendo un gabelliere era aduso alla penna. Inoltre i rozzi piedi del Santo sono rivolti a chi guarda, cosa che Caravaggio farà spesso e che sconcerterà sempre committenti e pubblico. Rifiutata dai frati, l'opera fu acquistata dal marchese Giustiniani. Giunse poi a Berlino dove durante la II° Guerra mondiale venne distrutta in un bombardamento. Anni dopo Caravaggio riprese il soggetto e dipinse il secondo San Matteo che vediamo posto sull'altare. Ma questa seconda versione non ha la potenza, la forza, del primo San Matteo, ha qualcosa di manieristico nella composizione, nelle curve contrapposte e molto modulate. Caravaggio fa concessioni all'eleganza formale della composizione, nella contrapposizione delle curve. San Matteo è più 'nobile' e meno ottuso nell'espressione e l'angelo è più angelo e...vola. Indubbiamente, anche solo vedendo le fotografie della prima versione ci si rende conto che era superiore a quella rimasta, che comunque rende il senso del miracolo nell'ombra che si addensa attorno alle figure creando uno spazio indefinito e nelle luci chiare che vibrano negli abiti. Inoltre lega di più con le altre due grandi tele e in un certo senso dà inizio alla maturità di Caravaggio. La “Vocazione” è la prima grande composizione di Caravaggio. La scena si svolge in uno spoglio locale chiuso, un ufficio da esattore (era un gabelliere) ed attorno ad un tavolo si aggruppano cinque persone. La scena fa pensare più ad una taverna che ad un 'ufficio'. Due giovani zerbinotti, con la spada al fianco ed il cappello piumato assistono con indifferenza alla scena che si svolge sotto i loro occhi senza capirne l'importanza. Sono questi due personaggi cari al pittore che spesso li introduce nelle sue opere, e che sono anche un po' il ritratto di Caravaggio e di chi frequenta, del suo mondo. Altri due personaggi a sinistra non guardano neppure quel che sta accadendo, tutti presi a contare i denari. L'unico ad intendere quel che avviene è la figura centrale, Matteo. Altre due figure completano la composizione: Gesù e un Apostolo. Sembra una taverna frequentata da poco di buono. Una fonte luminosa, che non è la finestra che si apre sul muro, illumina la scena, ma con un carattere particolare rivelando o nascondendo le immagini a seconda dell'esigenza del racconto e dell'espressione. Essa intride di luce i corpi e le vesti dando loro un senso, un significato, creando l'atmosfera del quadro e il discorso spirituale della composizione. Nella penombra brilla la mano del Cristo, leva morale della scena. E la luce bagna quei volti indifferenti di giovani smidollati, la mano sul petto per accennare a sé e il viso di Matteo che comprende e si meraviglia, il volto avido del vecchio che si aggiusta gli occhiali, le mani che fremono vicino al denaro, pronte ad afferrarlo. Caravaggio dipinge la scena con grande realismo, ma nella mano di Cristo e nel gesto di Matteo non c'è più nulla di di realistico, qui subentra lo spirito, il sacro, e questo contrasto tra lirica pura e sfida polemica è il simbolo della pittura di Caravaggio, e poi del '600. I colori sono assai belli ed hanno un loro valore poetico, anche se sono un po' subordinati all'effetto di luce ed ombra vero protagonista pittorico e stilistico del dipinto. La luce in Caravaggio è realistica, ma al contempo ha un senso spirituale “Il Martirio di S.Matteo” si svolge sui gradini di un altare nella penombra di una chiesa. L'opera ebbe due redazioni e nella prima composizione doveva essere simile alla “Vocazione”, cioè parallela al piano di fondo e con uno spazio architettonico sviluppato in alto, e di essa pare sia la parte sinistra del dipinto. Ma esigenze di vario tipo portarono l'artista a creare una scena più complessa e drammatica grazie ad uno spazio profondo in cui le figure si muovono su gradini e un carnefice seminudo lo sta afferrando. Altri due figuri seminudi sono semisdraiati su panche ai due lati in basso del quadro, in posizioni contrapposte. Un angelo scende da una nuvola e porge al Martire la palma della Vittoria. Sulla destra un chierichetto fugge atterrito con un gesto che ricorda il “Fanciullo morso da un ramarro”. Sulla sinistra vi è un gruppo di uomini. Due di essi guardano atterriti, altri due (di cui uno dall'aria fatua) vanno via dando un ultimo sguardo alla scena; nell'oscurità se ne scorgono appena ancora due, dei quali uno forse lo stesso Caravaggio. Ma questo gruppo di sinistra non si amalgama con le figure ignude dei carnefici e la loro raffigurazione non è giustificata nella scena. In se stessi sono pezzi bellissimi e hanno pose magnifiche, anche il chierichetto è un pezzo di poesia pittorica, ma essi distraggono dall'insieme, dal dramma, e non creano un tutt'uno coerente. Anche qui la luce ha un'importanza grandissima ed assorbe i colori nei suoi contrasti di luce e ombra. La luce trascorre nell'aria greve intagliando il nudo del carnefice, facendo risaltare la cotta del chierico, le mani levate al cielo degli uomini inorriditi, l'angelo che si sporge dalla nuvola. Un'aria di rissa di strada aleggia e questo realismo così crudo, qui è appena riscattato dal gruppo compatto e assai più omogeneo di quello di sinistra. A parte ogni tipo di analisi storico-critica, visitare la Cappella Contarelli e vedere le tele di Caravaggio è una bellissima esperienza che resta per sempre.
                                                                                                                                Maresa Sottile

sabato 13 giugno 2015

Qualche chiave di lettura per capire l'arte "moderna"

Vi è un'oggettiva difficoltà nella comprensione dell'arte moderna da parte del pubblico. La prima cosa da dire, a mio avviso, è che c'è molta incultura a proposito dell'Arte, meglio della Storia dell'Arte. Soprattutto in Italia, proprio nel paese che possiede il più grande patrimonio artistico del mondo e che purtroppo non se ne cura sufficientemente. Non basta che frotte di turisti, e non, vadano a visitare Musei e grandi mostre perché si acculturino sull'argomento. Molto spesso chi guarda le opere esposte ne apprezza l'aspetto naturalistico e l'effetto che forme, colori, espressioni gli trasmettono (se è sufficientemente sensibile), ma non basta. Altro grande scoglio per la fruibilità dell'arte sono i libri di critici e storici dell'Arte che, ancor più in passato ma anche oggi, scrivono spesso con linguaggi criptici per un neofita, persino i libri scolastici. Sono personale testimone di ciò. Prima nella scuola vedendo i testi, oggi facendo volontariato insegnando ad adulti completamente a digiuno di Arte e Storia dell'Arte pur avendo visitato musei e mostre. Questo, naturalmente, salvando la pace di chi si è preso cura della propria formazione con giuste metodologie e generale cultura. La Storia dell'Arte non è solo un elenco di nomi ed opere, ma un discorso collegato con Storia, Politica, Religione, Filosofia, Usi e Costumi, persino Collocazione Geografica, influenze presenti e passate di un periodo artistico, di un singolo artista, ma anche di un popolo. Conseguenze e collegamenti, quindi. Credo che questi parametri siano indispensabili e non eludibili per capire qualcosa di Arte. Torniamo adesso all'Arte dall'inizio del Novecento ad oggi. E già questo approccio non è molto preciso. Diciamo che dall'Impressionismo in poi le forme espressive dell'Arte sono cambiate. Ma di quale Arte vogliamo parlare? Perché le Arti Figurative sono tre: Architettura, Scultura, Pittura. Sceglierò la Pittura, quella più seguita e conosciuta dalla maggior parte delle persone. Anche se con delle incursioni nella Scultura. Nella prima metà dell'800 J.N. Niepce (1765/1833) e L.J. Daguerre (1765/1851) s'inventarono la fotografia sfruttando una scoperta antica e già usata nel '700 da molti artisti: la camera oscura, scoperta che risale ai Greci. Con l'avvento della fotografia, la Pittura venne a perdere molte delle sue valenze: testimonianza di eventi, luoghi, persone. Perché in passato era anche questo. Gli stessi Impressionisti, che erano ancora dei figurativi, non l'amavano. A questo punto gli artisti dovevano trovare nuovi linguaggi per esprimersi e le cose da 'raccontare' nelle loro opere erano rimaste solo quelle 'astratte', cioè i contenuti. Pur non usando più il linguaggio convenzionale gli artisti dovevano raccontare la loro epoca, i conflitti interiori, la propria poetica.... E la loro fantasia si è scatenata non avendo più vincoli e la, allora, recente conoscenza di culture lontane, sia nel tempo che nei luoghi, spesso li ha ispirati. Le grandi mostre sull'arte africana e giapponese che tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 in mezza Europa raccontarono culture lontane furono una finestra aperta su nuovi linguaggi a cui molti attinsero, ma anche i grandi cambiamenti tecnologici, ben due guerre mondiali, Freud e la psicanalisi, contribuirono a cambiare le cose. E anche l'arte del passato molto lontano, addirittura della preistoria, può aiutare a comprendere alcuni dei linguaggi che ci possono sembrare 'strani', addirittura ignoranti. Così molti, ad esempio, hanno creduto che Picasso non sapesse neppure disegnare, ma non era assolutamente così, infatti era un grande disegnatore. Questo breve discorso, anche se molto sintetico e in parte lacunoso, penso possa aiutare a comprendere meglio molti dei 'modi espressivi' dell'arte del '900. E adesso qualche esempio : l'arte africana primitiva, messa in mostra a Parigi nel 1907, '17 e '19, ispirò molti artisti, vedi Giacometti, importante scultore italiano, Matisse, Picasso, Modigliani, Brancusi. Le opere dell'arte Cicladica (Isole egee 3000 a.C.) sembrano realizzate ai nostri tempi. Davanti ad esse diciamo che sono dei capolavori. E ci ricordano le teste di Modigliani (quelle autentiche). E certo non sono opere figurative naturalistiche, come ad esempio le sculture greche del periodo classico. Eppure le statue che forse molti hanno ammirato dal vero o in foto, sono molto più astratte e concettuali di quanto non crediamo. Infatti è un concetto quello espresso dagli artisti del tempo che attraverso la perfezione delle membra, che rende quelle opere non certo realistiche, parlano della ricerca dell'armonia spirituale, vogliono dilettare e pacificare chi le ammira, e l'ammirazione che destano in noi è forse sintomo di pigrizia mentale che si ferma ad un'apparenza che soddisfa una parte dei nostri sensi: il piacere che si prova guardando il 'bello'. Ma non è 'il bello' il fine dell'arte. Qualche volta le due cose coincidono, ma vi è un 'oltre' che dobbiamo comprendere. E la cifra pittorica del colombiano F. Botero (1932) di cui tanto si è parlato possiamo ritrovarla nelle 'Veneri' scolpite dal 12.000 a.C. in molte parti d'Europa. Che anche loro raccontano un concetto: la Grande Madre (Terra, fertilità, simbolo di vita quindi divinità). E gli esempi potrebbero continuare. L'Uomo si è sempre espresso con forme e colori da lui decisi, ma che rispecchiavano la sua cultura, le sue credenze, la vita sociale del proprio tempo. Inoltre i grandi artisti sono degli innovatori, trovano modi espressivi spesso non compresi al momento e scandalosi. Gli innovatori trovano sempre resistenze. L'Arte va giudicata alla distanza.
     Maresa Sottile

sabato 6 giugno 2015

San Vitale e i suoi mosaici

La più bella chiesa di Ravenna è senza dubbio San Vitale. A pianta centrale, costruita in stretti mattoni rossi, ormai un po' sbiaditi dal tempo, con le caratteristiche delle costruzioni ravennati che spiccano per la loro semplicità ed essenzialità. E all'interno è ancora più sorprendente l'effetto scenografico, ricco, quasi fantastico della stupenda architettura e della ricca e colorata decorazione. La pianta è ottagonale, vi si accede tramite un nartece appoggiato ad uno degli spigoli, ma asimmetrico rispetto ad abside e altare. Esternamente lesene e contrafforti sostengono la struttura che si distingue dalle altre chiese ravennati per la centralità. Internamente la pianta è complessa perché sulla forma esagonale si innesta una forma circolare, smerlata, ad archi e con due piani, sormontata da una cupola. I capitelli sono doppi, come in tutta l'arte bizantina, infatti sul primo ve n'è un altro, detto 'pulvino'. Entrambi sono tronchi di piramide capovolti tutti traforati o intarsiati con motivi decorativi floreali, simboli o animali. Da ogni arco nasce uno spazio semicircolare sostenuto da pilastri, come fosse una cappella ma aperta con due colonne e tre archi (trifore) che sorreggono una copertura semi-cupolare. La pianta complessa ed ad un tempo assai semplice nella sua struttura nuova e particolare, si apre poi verso un abside davanti al quale è posto l'altare. Ogni superficie è coperta di mosaici o decorata con rilievi e trafori non lasciando un solo centimetro di semplice muro. Questa grande ricchezza di decorazioni, spesso con molto uso di oro, dell'interno contrasta con la semplicità di forme e povertà di materiali dell'esterno, rendendo un profondo significato all'edificio: lo spirito cristiano che predica la semplicità, la povertà, l'umiltà, ma la grande ricchezza interiore, dello spirito. Ed ecco che questo contrasto fra fuori e dentro dell'edificio assume un senso, e non denota, invece, una discrepanza nello stile dell'edificio. Le decorazioni pittoriche sono in realtà a mosaico, con sfondi d'oro anche quando rappresentano Giustiniano e Teodora con le loro corti. E circondano i loro capi con aureole. Questo perché il potere ed i loro rappresentanti sono assimilati a concetti divini quindi ne assumono anche i simboli. I mosaici di San Vitale sono forse fra i più famosi al mondo e risalgono al VI sec. d.C. Li troviamo sull'introdosso dell'arcone (l'interno dell'arco) che dà nel presbiterio, sulla volta di esso, sulle due pareti al di sopra e a fianco delle trifore del deambulatorio e del matroneo, dell'estrodosso dell'arco che immette nell'abside, nel catino absidale e sulle sue due pareti. Sull'introdosso dell'arcone del presbiterio ci sono medaglioni circolari con gli apostoli, Cristo e (forse) S. Gervasio e S. Protazio; due delfini uniti con le code formano un arco sotto ogni medaglione, in cui le figure fono frontali delineate con spirito individualistico, ma con lo sguardo fisso, assorto in qualcosa di lontano. La volta del presbiterio e divisa diagonalmente da due ghirlande di fiori e frutta, girali d'acanto creano un merletto sul fondo. Al centro della volta L'agnello Mistico, quattro angeli su dei globi reggono il tondo centrale. Elementi orientali, ellenistici, classici e modi propri ravennati di tecnica, si uniscono con un senso di pieno decorativismo dall'effetto splendido. Sulle lunette al di sopra delle trifore e ai lati del matroneo Evangelisti, Profeti, scene della Bibbia, sempre a mosaico. Nell'abside sul cielo d'oro ed un paesaggio accennato e non naturalistico con quattro rivoli, simboli dei fiumi mistici, l'apparizione divina, molto cara all'arte cristiana. Cristo siede su un globo azzurro e due angeli gli presentano S.Vitale e il vescovo Ecclesio che porta il modello della chiesa. Figure molto plastiche e colorate. La visione è trasportata in una sfera irreale, proiettata al di là di ogni contingenza, quindi in modo convenzionale estraneo alla visione naturalistica dell'arte classica. Nei due famosissimi riquadri 'palatini' Giustiniano e Teodora siamo ormai nel campo della assoluta raffigurazione bizantina. Qui il mosaico è ridotto ad una pura planimetria coloristica. Unico residuo delle tradizioni classiche è nei volti che conservano un carattere abbastanza individuale. I due imperatori sono raffigurati con la loro corte, coperti di gioielli, mentre vanno ad offrire ricchi doni che permetteranno di finire la costruzione della chiesa. Le figure sono rappresentate frontalmente, senza volume, senza ombre e senza espressione. Nulla è realistico, tanto che i piccoli piedi dei personaggi si sovrappongono spesso l'uno all'altro. A sfondo delle figure edifici molto poco realistici ma simbolici di edifici regali. San Vitale davvero fa entrare in un mondo prezioso, elegante, e ad un tempo mistico, la bellezza delle sue forme, delle sue decorazioni lo rendono uno degli edifici più 'preziosi' dell'arte e non solo bizantina. Un edificio che parla di due culture unendo in modo splendido occidente classico e oriente favoloso.
                                        Maresa Sottile

mercoledì 22 aprile 2015

Frida Kahlo, il dolore e la passione

Frida Kahlo (1907/1954) è un'artista messicana molto nota al grande pubblico soprattutto perché la sua vita è stata immortalata in un film e sono state fatte delle mostre delle sue opere molto pubblicizzate. La sua storia, davvero tragica, ha colpito la fantasia di tanti. E non poteva essere diversamente. Tutti sanno del terribile incidente che subì a diciott'anni e che condizionò tutta la sua vita portandola anche ad una morte precoce. L'incidente cambiò davvero la sua vita. Voleva fare il medico invece fu lei per sempre nelle mani dei medici con 32 operazioni sùbite a causa di quell'incidente: lo scontro dell'autobus sul quale era con il ragazzo che amava. I danni che Frida subì furono davvero allucinanti, la inchiodarono per mesi al letto, le fratture che subì furono molteplici: tre alla colonna vertebrale, al femore, all'osso pelvico solo per dirne qualcuna. Non poté mai avere figli anche se ebbe una gravidanza, che non poté portare a termine e, da quello che dipinse in vari quadri, sappiamo che questo fu un ulteriore dolore. Inoltre pare avesse la colonna vertebrale bifida, che le comportò altri gravi problemi, scambiati in gioventù dai suoi per polio. Della sua vita è anche famoso il letto a baldacchino che le procurarono i genitori con uno specchio in alto: nei lunghi mesi in cui fu costretta a letto aveva cominciato a disegnare così quello specchio in cui si rifletteva la sua immagine fu la sua fonte di ispirazione: cominciò a dipingere se stessa. Quando finalmente si alzò aveva un busto per reggere la colonna vertebrale e soffriva molto, sarebbe stato sempre così, visse accompagnata dal dolore tutta la vita, ad un certo punto le misero persino un sostegno di ferro alla colonna. Rendersi conto del dolore fisico che Frida ha sùbito non è facile. Ma era una donna forte, giovane e la voglia di vivere la sostenne. Abbandonati gli studi per fare il medico continuò invece a dipingere e ad essere coinvolta nella politica: era ormai una convinta comunista. Oltre che dipingere aveva molto letto a questo proposito. Aveva bisogno di guadagnare e decise di far vedere i propri quadri al più importante pittore del momento: Diego Rivera, che restò colpito dai lavori di quella ragazza, l'accolse e la lanciò nel mondo artistico del tempo ed anche nella politica essendo anche lui un fervente comunista. Frida si innamorò di Rivera e si sposarono nel 1929. La Kahlo e Rivera si lasciarono e ripresero per tutta la vita, addirittura sposandosi due volte. Si tradirono reciprocamente tutta la vita. Cosa abbia affascinato Frida resta per me un mistero. Rivera era molto più grande, brutto, quasi repellente e infedele, anche come artista, invero, Rivera non era, secondo me, un genio della pittura, anche se celebre. L'arte di Rivera, molto apprezzata al tempo anche fuori del suo paese, personalmente non mi ha colpito più di tanto. Certamente il suo linguaggio non è molto originale né unico. Quello di Frida invece è personalissimo ed emozionante, anche se a volte molto crudo. Unico forse come unica fu Frida anche come donna. Guardare il suo aspetto fisico lascia perplessi: le donne tendono ad abbellirsi, lei oltre a non separare i sopraccigli, che sul suo viso diventano una barra nera sugli occhi, non depilava neppure i baffi che risaltano molto anche perché era molto scura di pelle e capelli. Pare piacessero al marito. Se i primi possono assumere una caratteristica quasi accettabile, quella peluria nera sul labbro era terribile (almeno secondo me), eppure il fascino di Frida andava oltre ogni cosa, era personale e attraeva uomini e donne. I critici d'arte volevano etichettare la sua opera come surrealista, lei non fu mai d'accordo, anche se per un periodo accettò questa etichetta, ma poi scrisse che non ci si sentiva e non lo era. La Kahlo raccontò con le immagini il suo dramma, la sua vita dolorosa, il suo corpo straziato e la sua mente presa totalmente da Rivera e dalla sua ossessione d'amore. Racconta i suoi pensieri, il suo mondo colorato e caldo nel quale, però, regna egualmente il dolore. Colori caldi e accesi, derivanti dalla cultura Sud Americana, impregnano la sua opera. Frida raccontò in un modo unico, inimitabile. Mi fa pensare a Chagal (vedi articolo) che nelle sue opere anche lui, nella sua lunga vita, dipinse quasi sempre il suo mondo perduto, i suoi ricordi. Forse erano due egocentrici perché si sentivano al centro di ogni cosa, uno coi suoi ricordi, l'altra col suo dolore ed il suo amore infelice. Due egocentrici certamente, come quasi tutti gli artisti. Ma ci hanno lasciato opere che sono tra le più interessanti ed inconfondibili dell'arte del '900. Rivera comprese il suo valore e Frida ebbe successo. Ma davvero la salute è la ricchezza più grande e lei non la ebbe. Morì a 47 anni. Rivera si risposò (era il suo 4° matrimonio, anzi 5° se contiamo che con Frida si sposò 2 volte). Maresa Sottile

mercoledì 15 aprile 2015

Il Genio più grande: Leonardo da Vinci

Il 15 aprile 1452 nasceva a Vinci Leonardo, quindi oggi 15/4/2015 cade il 563° anniversario della sua nascita, e oggi a Palazzo Reale di Milano si inaugura una grande mostra su di lui, in concomitanza con l'evento dell'Expo. Mostra che gli organizzatori hanno preparato per 5 anni con opere pittoriche e grafiche e opere di altri artisti del suo tempo per ricreare lo spirito, l'atmosfera culturale dell'epoca, i rapporti artistici fra coloro che agivano in quel mondo e in quel tempo. Ma non è della mostra che voglio parlare, infatti ancora non l'ho visitata, ma di lui, di Leonardo, di colui che tempo fa, in una specie di referendum, fu definito il più grande genio dell'Umanità. E soprattutto dell'uomo e dell'artista che sin da quando ero ragazzina mi ha affascinato come nessun altro. Di lui ho visto le opere del Louvre, alcune pagine dei suoi Codici, alcune macchine costruite sui suoi disegni, oltre ad una edizione di uno dei libri più completi sulla sua opera omnia, cioè artistica, ingegneristica, scientifica. Da ragazzina lessi il libro di Dimitri Merezkovskij Leonardo Genio , libro che si rivelò poi con varie imprecisioni ed errori storici, ma di indubbio fascino. Poi l'ho studiato ed è rimasto, se non il mio artista preferito, uno dei miei prediletti. Poi ho avuto in casa uno splendido volume intitolato Leonardo da Vinci pubblicato nel '57 dall'Istituto Geografico De Agostini con le riproduzioni oltre che dei suoi dipinti, anche dei suoi Codici. Un libro davvero bellissimo e interessantissimo, oltre che di dimensioni notevoli. La cosa che, ovviamente, mi ha più affascinato in lui è stata la poliedricità del suo genio. Capace di dipingere la Vergine delle Rocce e nel contempo di inventare il sottopassaggio o l'elicottero, ma soprattutto capace di riprodurre nelle sue opere i suoi studi e saperi: di botanica o di geologia che sia, facendone un capolavoro. Forse proprio questa è la cosa che mi affascina di più. Sapere che quell'erba, quei fiori, quei monti, ad esempio nella Vergine delle Rocce, potrebbero illustrare un libro scientifico, ma al contempo sono di una bellezza e poesia artistica eccezionali. In lui le sue conoscenze partecipano della sua arte e la sua arte partecipa del suo genio scientifico. E poi è stupefacente il senso dell'atmosfera nei suoi dipinti. Come si può dipingere l'aria? Eppure Leonardo l'ha fatto e chi ha visto le sue opere lo sa. Non è solo un fatto di tridimensionalità, di prospettiva, le sue figure sono avvolte dall'aria che il suo sfumato è in grado di creare. Si dice che Raffaello abbia tentato di dipingere con questa tecnica, con il risultato di rendere lo sfondo della sua opera nero e di non riuscire a ricreare quell'effetto di pulviscolo atmosferico leonardesco. Quando studiavo l'immagine sui libri, ad esempio, della Gioconda il dipinto non mi appariva così eccezionale come si diceva. Ma quando sono stata davanti a quel quadro mi sono resa conto, anzi ho sentito, di essere davanti ad una delle opere più belle e affascinante che un artista in ogni tempo abbia mai creato. La mostra a Milano, ho letto, pare voglia un po' sfatare la “solitudine” del grande artista. Probabilmente sarà vero che non fosse così incompreso come si è sempre detto, anche se non lo credo. Certo che sapevano che era un grande artista, ma l'incomprensione era per lo scienziato, per lo studioso. Durante un soggiorno, mi pare in Veneto ma non lo ricordo bene, lui scoprì delle conchiglie ed elaborò la tesi che dove ci sono le Alpi, c'era il mare. E aveva ragione. Ma chi mai poteva credergli al tempo? Il suo grande mecenate Ludovico il Moro, fu scacciato dai francesi, distruggendo, come fa l'ISIS, il monumento equestre che stava elaborando per lui Leonardo, che dovette fuggire anche lui da Milano. Michelangelo, brutto e gobbo, lo dileggiava, mentre lui oltre che bello era anche di buon carattere, accomodante e pacifico, ma non ebbe mai una gran fortuna e neppure grandi riconoscimenti. Era lento nel dipingere, distratto dai suoi mille studi: la dinamica, l'anatomia, la botanica, la geologia, l'ingegneria meccanica e civile, ecc. ecc., intanto il suo sistema di canali per l'irrigazione è ancora in funzione in Lombardia. Come artista sapevano che era grande, ma non era affidabile per i suoi tempi lunghi e per le sue sperimentazioni, vedi Il Cenacolo a Milano. L'ho visto come tanti di voi, spero, ed è l'unica Ultima Cena che valga la pena vedere in assoluto. E' l'unica in cui le immagini disposte tutte dietro il tavolo non risultino forzate e noiose (non parliamo di quelle con i convitati disposti intorno alla tavola che si girano, come si fa per fare una foto di gruppo oggi). L'unica nella quale la monotonia delle figure non esista per quel movimento che le raggruppa a tre per commentare le parole di Gesù: “...qualcuno di voi mi tradirà.”. A tre formando ancora una volta la composizioni a piramide, altra sua geniale invenzione pittorica seguita da tutti gli artisti, anche i più grandi, del tempo. Ma quante peripezie ha avuto questo capolavoro eseguito con tecniche sperimentali che hanno subito di più le offese del tempo e delle vicissitudini, che già lo deteriorarono durante l'esecuzione, come l'allagamento del refettorio in cui è sito, mentre ancora Leonardo lo dipingeva. Il Papa non lo volle al suo servizio né gli commissionò mai nulla, non lo ricevette nemmeno. Leonardo emigrò, molto infelice e frustrato. Credo sia inconfutabile, morì infatti in Francia nel castello di Aboise, del quale progettò, dicono le guide, una splendida scala elicoidale, nel 1519 a 67 anni. Oggi sarebbe ritenuto giovane per morire, ma per quei tempi era vecchio, come d'altra parte ci appare nel suo famosissimo autoritratto con lunghi capelli e lunga barba bianca, sembra almeno un ottuagenario. Avrei da dire ancora tante cose sul genio e sull'arte di Leonardo, ma ho imparato che su un blog non si può essere troppo lunghi, inoltre la lunga lettura al pc stanca più di quella della carta stampata, così mi fermo qui. Semmai andrò a vedere la mostra riscriverò sull'argomento. Maresa Sottile

lunedì 16 marzo 2015

A Roma al Vittoriano grande mostra di Giorgio Morandi

Il 27 febbraio si è inaugurata la Mostra di Giorgio Morandi al Vittoriano con 150 opere. Si chiuderà il 21 giugno 2015. Giorgio Morandi (1890-1964) è un artista riconosciuto in tutto il mondo tra i più grandi del '900 e come accade per tutti i grandi artisti è un unicum. La sua vita è lontana dallo stereotipo di quella dell'artista stravagante, sregolato. Non si arricchì pur essendo affermato come artista. Fece vita molto ritirata, lavorando come insegnante di disegno, prima alle scuole inferiori, poi - chiamato per meriti - alla Cattedra di Incisione all'Accademia di Belle Arti di Bologna, città in cui visse tutta la vita con le due sorelle di cui si occupò tutta la vita dopo la morte dei genitori, e dalla quale si mosse raramente. Studiò l'arte antica italiana ma anche le innovazioni degli Impressionisti e i movimenti artistici del suo tempo. Condivise la vita culturale del '900 e della sua città, ma visse in modo assai schivo, lavorando senza subire molto le influenze del modo artistico del tempo, restando fedele tutta la vita ad un suo mondo poetico e metafisico. Morandi per lo più dipinse oggetti quali bottiglie, vasetti, coppette, scatole che cercava e comprava nei mercatini per poi creare le sue composizioni, molto studiate per i rapporti di colore, forme, spazio. Nel suo studio di via Fondazza colorava quegli oggetti e li conservava. Creava poi le sue composizioni disponendo su un piano quelle cose da lui raccolte e trasformate, così gli stessi oggetti appaiono in più opere. E sembra strano che un artista che ha dipinto tutta la vita le stesse cose - tranne qualche paesaggio e qualche ritratto - cambiandone l'accoppiamento e il numero, possa essere ritenuto un grande artista. Eppure guardare un'opera di M. si entra in un mondo a parte, silenzioso, luminoso, pieno di sospesa atmosfera, un mondo che va oltre l'apparenza. Oggetti umili e comuni in una variazione di forme e tonalità che fa entrare chi guarda in una dimensione rarefatta e al contempo reale. Si resta affascinati a guardare quelle bottiglie, quei vasi, quelle scatole, dalle tonalità polverose, dagli accostamenti di tinte che variano di poche tonalità tra di loro, magari poi interrotte nel loro dialogo di forma e colore da una tonalità diversa, più vivace o più scura che le esalta, o da una forma contrastante che esalta il tutto. La luce nei suoi quadri pare nasca dalle cose. Bisogna essere un genio se dipingendo tutta la vita quasi la stessa cosa si affascina il mondo. Ma poi a pensarci bene non hanno fatto sempre questo tanti artisti, geni dell'arte? Che per lo più hanno usato il corpo umano, però. Si va da una tela all'altra per ritrovare le stesse movenze, gli stessi personaggi, gli stessi panneggi, gli stessi paesaggi, gli stessi colpi di luce o luci soffuse, si guardano le figure che un artista ha imitato da un altro per farne un capolavoro proprio. Questa è l'Arte, non quello che si rappresenta, ma come si rappresenta. Morandi con le sue bottiglie, vasi, scatole, ci fa entrare in un mondo poetico, in un'atmosfera rarefatta in cui tutto diventa altro e ci rapisce. Il suo, potremmo dire, minimalismo è ricco di suggestioni avvolte da colori polverosi, una casualità apparente di forme che creano composizioni bilanciate in una costruzione dello spazio e dei piani più complessa di quanto appaia al primo sguardo. Morandi è un poeta che con parole apparentemente semplici ma ben accordate tra loro, dice cose profonde. Anche i suoi paesaggi essenziali hanno molta atmosfera, vien in mente anche Carrà per l'essenzialità delle forme e dei colori; e sono molto belle le incisioni, tecnica di cui era davvero un maestro, nelle quali è riuscito a ricreare l'atmosfera che c'è nelle sue tele, anche se la mancanza del suo colore magico si fa sentire. Maresa Sottile

mercoledì 11 marzo 2015

Jan Vermer

Pittore olandese del XVII sec. Jan Verneer (1632-1675) per un certo tempo rimase poco conosciuto. L'interesse degli storici dell'arte per lui è stata tardiva ed è giunta solo alla fine dell'800 grazie allo studioso dell'arte Pieter Van Ruijven ed anche a Marcel Proust che apprezzò la calma silenziosa dei suoi interni che portava ad una profonda riflessione. La sua conoscenza da parte di un vasto pubblico è legata ad un libro ed a un film, passato anche più volte in televisione, che lo ha reso popolarissimo. Nato a Delft non andò mai fuori dell'Olanda, forse dalla sua città e la sua fama rimase infatti circoscritta ad essa. La sua arte non lo arricchì, e quando morì, ancora giovane, lasciò la moglie e i numerosi figli in pessime acque tanto che la vedova chiese di pagare i debiti del marito con i suoi dipinti. Pur avendo ereditato dal padre le sue attività commerciali, egli si trasferì in casa della suocera che sin dall'inizio mantenne la sua famiglia e poi economicamente lo aiutò sempre. In effetti della sua vita non si sa molto. Vermeer comunque si conquistò un certo prestigio, tanto da diventare Sindaco della Gilda di Delft (Corporazione in cui si riunivano gli artigiani e gli artisti), ed ebbe alcuni facoltosi clienti tra cui un vero e proprio mecenate in un ricco signore della città,Théophile Thoré-Burger. Le notizie su Vermeer sono però assai poche e quasi mai certe sia per la lunga dimenticanza sia per la mancanza di documenti. Andò a bottega per studiare presso un pittore locale piuttosto noto, come già in Italia non si faceva più. Probabilmente venne in contatto con importanti artisti del suo tempo e conobbe l'opera del Caravaggio, ma non direttamente visto che non lasciò mai il suo Paese. I suo dipinti sono quasi tutti interni domestici, restano solo due paesaggi. Essi hanno sempre inquadrature particolari, sembrano quasi degli scatti fotografici: splendide inquadrature di interni che colgono momenti sempre assai intimi e familiari. Pare che usasse la “Camera Ottica” ormai largamente usata soprattutto per i paesaggi. Inoltre nelle sue opere fa un uso della luce di derivazione caravaggesca. Nei suoi interni è molto attento e preciso nella descrizione dell'ambiente e a ciò che esso contiene, oggetti, quadri, tessuti. E spesso questi elementi si ritrovano in più opere. E a volte collegate alla scena rappresentata le danno un significato diverso da quello apparente. La vita domestica e la gente comune sono uno degli argomenti preferiti nella pittura fiamminga già da tempo, diversamente dall'Italia dove la religione ha un peso fondamentale. Caravaggio, pur dipingendo soggetti religiosi aveva portato i suoi personaggi e l'ambiente in cui si svolgeva la scena in un mondo più realistico e contemporaneo, vedi La vocazione di San Matteo, nella quale la scena si svolge in un ambiente chiuso, una stanza che poteva essere una taverna, aveva introdotto anche lui un elemento realisticamente di attualità anche nell'abbigliamento e nei personaggi rappresentati, ma solo nel '700 in Italia nascerà quella che si chiama 'pittura di genere' e che parla del quotidiano e della gente comune. L'arte fiamminga invece ha avuto da sempre questa connotazione di quotidianità, di personaggi comuni, rappresentando anche il lavoro più umile, l'abito del povero, la fisionomia dell'uomo comune. Vermeer in un certo senso inserisce il concetto di luce di tipo quasi caravaggesco alla quotidianità della sua tradizione fiamminga. Ma questa è solo l'apparenza. In realtà le opere di Vermeer non sono proprio quello che rappresentano. In quella puntualità nel descrivere ambienti ed oggetti che ne fanno parte c'è spesso il probabile significato delle sue opere. Un significato più alto che non ha a che fare con la pittura realistica 'di genere'. Già l'uso del colore è particolare, fatto a piccoli punti e con dei puntini bianchi che danno effetti di luce particolare. Colori che spesso si ripetono, ama il giallo e l'azzurro. Questi squarci di vita e attività quotidiane, narrate quietamente come delle istantanee, assumono un valore universale più alto. Hanno a che vedere col senso della vita, con l'anelito dello spirito umano verso significati più profondi. Sentimenti, cultura e desiderio di sapere. Sono opere colte quelle di Vermeer, cariche di simboli, di notizie, di richiami culturali. Ambienti silenziosi in cui si è portati a pensare, a riflettere, ad interrogarsi. Le opere attribuite a Vermeer sono circa una quarantina, ma molti non le credono tutte sue perché un famoso falsario pare che abbia dipinto vari Vermeer. Eppure anche nel numero esiguo dei dipinti certi l'artista ha creato un suo mondo che è un vero e proprio caso artistico ancora studiato oltre che ammirato da molti.
    Maresa Sottile

mercoledì 4 marzo 2015

Paola Levi Montalcini un'artista affascinata dalla scienza

Il nome di Rita Levi Montalcini è noto certamente a tutti, soprattutto in Italia, dopo che nel 1986 ricevette il Premio Nobel per la Medicina, dimostrando ancora una volta che intellettualmente le donne sono eguali agli uomini e che la loro intelligenza può assurgere a livelli altissimi, anche nel mondo scientifico, ambito nel quale un tempo le donne non erano ammesse. Le donne per secoli sono state escluse da questi studi perché ritenute incapaci, con doti intellettive inferiori. Anche se già dall'antichità avevano dimostrato il contrario. Meno noto è il nome della sua gemella Paola. E soprattutto non molti sanno che è stata una pittrice e scultrice, un'artista di indubbio talento. Allieva del grande Casorati, assieme a quella che diverrà la moglie di lui, la nipote del famoso scrittore Somerset Maugham, ma anche a Lalla Romano ed altre. Partecipa al movimento futurista, poi al MAC (Movimento Arte Concreta), conosce e frequenta l'Intelligentia artistica del suo tempo da Argan a De Chirico. Sposa un poeta futurista. Dopo il periodo della guerra riprende il suo lavoro guardando all'astrattismo, alla fotografia e, come la gran parte degli artisti dell'epoca, a nuovi materiali con cui esprimersi. Molto informata su quanto accade nel mondo dell'arte e non solo in Italia, quindi a conoscenza di tutte le filosofie ed i movimenti artistici del suo tempo, è però molto influenzata dalle attitudini familiari: cioè dal mondo scientifico e matematico. Padre, fratello, sorella sono interessati alla matematica ed alla scienza e Paola sente il fascino dei numeri, dei misteri che celano il mondo della matematica e delle Scienze, che stimolano la sua fantasia d'artista. Mondi misteriosi e fascinosi, che sembrano non legare con l'espressione artistica nel concetto che mi sembra superato (vedi anche Escher), che l'Arte sia espressione di sentimento, e la Scienza fredda espressione intellettuale, e in cui invece la Levi trova ispirazione diventandone il contraltare artistico. Ed è affascinata, oltre che dai numeri e dalle figure geometriche, dalle possibilità espressive dei materiali, dai metalli a quelli plastici, fino alla luce, alla cinesi e alla computer grafica. Di lei hanno scritto grandi storici e critici dell'arte come Argan e Dorfless e la stessa sorella Rita, che ha donato, alla sua morte alla Galleria d'Arte Moderna quaranta sue opere.
                                                                              Maresa Sottile