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domenica 27 novembre 2011

La villa ‘ Floridiana ‘ ed il museo delle ceramiche

Il ‘Maggio dei monumenti’, iniziativa nata a Napoli e dilagata per l’Italia, ha contribuito ad una maggiore e più diffusa conoscenza dei beni artistici del nostro paese, dato impulso al turismo e aperte le porte di molti monumenti non sempre fruibili. Ma nelle nostre città vi sono splendide opere sempre visitabili che i cittadini, forse proprio perché sempre a portata di mano, conoscono poco o di cui poco sanno. Mi sembra il caso della ‘Floridiana‘, splendida villa neoclassica napoletana con annesso museo delle ceramiche e parco. Certo non c’è vomerese che non sia entrato in questo parco (meno quelli che non sono del quartiere) ma non tutti hanno visitato il suo museo e sanno la storia di villa e raccolta d’arte
Nel ‘700 la collina del Vomero cominciò a cambiare aspetto. Il villaggio rurale, che deve il suo nome al gioco del vomere che i villani facevano nei giorni festivi, quando da tutte le zone si riunivano per la messa e per passare il giorno di festa a svagarsi, cominciò a trasformarsi perché iniziava ad essere apprezzato dai ricchi proprietari di quelle terre, che presero a costruirvi ville per la villeggiatura: l’aria del Vomero è più fine e fresca di quella della città, i luoghi assai ameni ed i panorami incantevoli. A volte le stesse case coloniche venivano acquistate e trasformate dai nobili, anche stranieri. Infatti nel 1797 Francesco di Chervreaux comprò una masseria dal marchese di San Mango e la trasformò in una bella villa, rivenduta poi al capo della polizia borbonica, il detestato ministro Saliceti. L’acquisto era per la figlia, che però morì presto. Il vedovo principe Caracciolo di Torella a sua volta la venderà nel 1816 al re Ferdinando I, da poco rientrato dal forzato esilio di quindici anni in Sicilia. Lì la regina Maria Carolina era morta, ma Ferdinando, si era subito risposato con la piacevole Lucia Migliaccio di Floridia, vedova del duca di Partanna. Nozze morganatiche dato che la Migliaccio non era di sangue reale, quindi non poteva vivere a Palazzo ed il re la sistemò in un bell’edificio in quella che oggi è Piazza dei Martiri: Palazzo Partanna. Ma evidentemente voleva una residenza più consona dove Lucia fosse ‘regina’. Così Ferdinando comprò la masseria divenuta villa ed un’altra proprietà adiacente, divisa da un vallone, con un edificio che dopo vari passaggi di proprietà era divenuto luogo di preghiera dei frati del monastero di San Martino ed infine una caffeaus, parola -stranamente- italiana che indicava un luogo di ristoro per i gitanti estivi sulla collina.
Il complesso era vasto, verdeggiante ed affacciato sul panorama mozzafiato del golfo. Fu affidato per la sistemazione al più importante architetto della città, Antonio Niccolini. Questi ristrutturò ed abbellì i due edifici nello stile del tempo. Adeguatamente al luogo ed al suo gusto e carattere, Niccolini creò degli edifici semplici e ariosi, perfettamente inseriti nel paesaggio, e curò anche la realizzazione del parco. Unì con un ponte sul vallone le due proprietà ed insieme al direttore dell’Orto Botanico Denhart lo organizzò scenograficamente. Vennero utilizzate 150 specie di piante rare, in gran numero portate da altri paesi, di cui resta poco o nulla. E statue e finti ruderi, serre,(scomparsi); fontane, il teatrino all’aperto della Verzura, un belvedere circolare, gabbie per animali feroci donati dagli inglesi al re, con disappunto dei napoletani, che li detestavano. Il complesso verrà chiamato la Floridiana e la caffeaus Villa Lucia. La duchessa ama villa Lucia, trasformata in marcato stile pompeiano e vi alloggia, usa l’altra villa per la vita mondana. Si ricorda un favoloso ricevimento che diede per Carlo IV, suo cognato.
Quando la coppia reale morì, la proprietà andò ai figli del primo matrimonio di Donna Lucia. Così si smembrò: Villa Lucia passò di mano in mano ed è ora un condominio privato, anche se con dei vincoli, la Floridiana nel 1919 venne acquistata dallo Stato.
Un’altra storia s’intreccia con la Floridiana e il suo museo. Il duca Placido di Sangro, discendente del principe di Sansevero dell’omonima celebre Cappella, sposa nel 1854 Maria Caracciolo di San Teodoro. E' gentiluomo di camera di Ferdinando II e poi di Francesco II quando avviene l'Unità d'Italia va a vivere all'estero. E' soprattutto fra Parigi, dove risiede, e Londra, dove va spesso, che mette insieme una enorme collezione di piccoli oggetti d’arte, in gran parte ceramiche e porcellane. Rientrato a Napoli porta con sé la collezione che alla sua morte nel 1891, viene ereditata dal nipote Placido de’ Marsi, che continua ad arricchirla e nel 1911 la lascia alla città. Nel ‘24 Giovanni Gentile individua nella Floridiana il luogo ideale per la collezione: 5300 pezzi, che nel 1978 verrà arricchita dall’ulteriore donazione di Riccardo de’ Sangro, con altri 580 pezzi. Così è nato il Museo Nazionale della ceramica Duca di Martina, dal titolo del primo duca Placido de’ Sangro. Uno dei più interessanti e bei musei di ceramiche, porcellane, piccoli oggetti d’uso: ventagli, tabacchiere, bastoni…ed anche 28 tele, ricco di storia, di storie affascinanti, tutto in un luogo incantato dal cui giardino, immersi nel verde, davvero si gode un panorama splendido.
                                                                  Maresa

domenica 20 novembre 2011

Egon Schiele
e il suo tempo


Egon Schiele incarna lo stereotipo dell'artista: inquieto, scandaloso, ribelle, cocciuto, tormentato, dalla vita disordinata. Quest'immagine è confermata dalla bella mostra a Palazzo Reale di Milano, curata da Rudolf Leopold e Franz Smola, che l'hanno arricchita con opere degli artisti dell'epoca, da Klimt a Kokoschka, Moser, Gerstl, ricreando così l'ambiente, l'atmosfera in cui crebbe e lavorò Schiele.
Nato nel 1890, Schiele visse un momento molto vivace e importante della vita culturale viennese: la nascita della Secessione e poi dell'Espressionismo; ebbe anche una stretta amicizia con Gustav Klimt, artista ormai affermato, pur se non ne condivise la svolta più decorativa e di compiacente erotismo imboccata dall'amico-maestro, che ciononostante lo ammirò ed aiutò. Ma Schiele ebbe egualmente vita difficile. Tacciato persino di pornografia per le sue rappresentazioni estremamente realistiche del corpo femminile, poi accusato di stupro su una minorenne, accusa che cadde, finì 24 giorni in prigione per i disegni 'osceni' trovati in casa sua durante una perquisizione. Evento che lo fece molto soffrire. Tutto ciò non giovò alla sua 'carriera' artistica, e solo nel '18 cominciò a raccogliere i frutti del suo lavoro. Quando il suo matrimonio con Edith Harms nel '14 mise un po' d'ordine e serenità nella sua vita, si rasserenò anche un po' la sua arte e la Mostra della Secessione Viennese del '918 lo consacrò quale più importante artista austriaco, essendo anche morto Klimt. Ma era ormai tardi, pur avendo solo ventott'anni, la morte era in agguato: prima la moglie incinta Edith Harms, e tre giorni dopo lui, alla fine di ottobre furono falciati dalla spagnola.
Schiele ebbe indubbiamente un forte interesse per il corpo femminile, che ritrasse in disegni, acquerelli, tele mirabili, cominciando con l'adorata sorella Gerti, poi l'amante Wally, infine la moglie, aprendo alla pittura un modo nuovo di esprimere la sensualità. Eppure le sue immagini dal tratto acuto e nervoso non sono mai compiacenti, ma scavano nell'io più intimo. I suoi disegni (peraltro splendidi) ed i suoi dipinti vanno molto più in profondità in un'introspezione psicologica, mentale, molto inquieta e drammatica.
Maresa Sottile
pubblicato sul mensile Albatros del giugno 2010

sabato 19 novembre 2011

Il racconto fantastico di un grande artista
Mauritius Cornelis Escher


L'olandese Mauritius Cornelis Escher (1898/1972), è stato soprattutto disegnatore e incisore, ha prodotto una serie di acqueforti e xilografie molto apprezzate dagli intenditori e non solo, soprattutto dopo grandi mostre in varie città d'Italia, tra le quali una a Roma ai Musei Capitolini e Napoli a Castel Sant'Elmo nel 2005. Queste grandi esposizioni hanno avvicinato un pubblico più vasto ad un artista particolare ed affascinante con il suo mondo quasi sempre in bianco e nero in cui gioca, oltre alle capacità artistiche, una grande perizia tecnica e sperimentale.
Escher, poco incline agli studi scolastici, lasciò la scuola di Haarlem d'Architettura e Arti Decorative per seguire una importante scuola di disegno decorativo. Ma le sue valutazioni non erano molto lusinghiere e lasciò anche questa. Poi, come ogni artista volle fare un viaggio in Italia nel ’22. Nel ’23 tornò e vi si stabilì. Qui conobbe la donna che sposerà e a Siena farà la sua prima mostra che gli porterà subito un grande successo.
Girerà molto per l’Italia e la racconterà nei suoi disegni ed incisioni, soprattutto xilografie. Tanti paesaggi nelle sue incisioni, da Ravello alle montagne dell’Abruzzo, dai paesaggi della Calabria, a quelli notturni di Roma dove si stabilì. Disegni molto interessanti, eseguiti con una grande perizia ed anche sperimentazione nella tecnica dell’incisione, in cui si comincia a notare il suo interesse per le architetture, per certi giochi tra i bui e gli effetti di luce, per ‘effetti speciali’ nella rappresentazione grafica e la sua millimetrica precisione.
Ma nel ’35 Escher non tollera più il clima politico che si sta creando nel nostro paese e si trasferisce in Svizzera. E’ da adesso che inizia la sua produzione più affascinante e famosa. In una visita fatta in Spagna era rimasto molto colpito dall'Alhambra e dalle sue decorazioni moresche. Incominciò così a studiare il disegno ‘periodico’, il modulo, la divisione dello spazio su basi matematiche, la prospettiva, la ripetizione delle immagini nel disegno e nel suo sfondo che può essere uguale o differente e che diventa a sua volta immagine e l’altra diviene sfondo. Escher crea un mondo fantastico, molto più affascinante della realtà, in cui le figure nascono una dall’altra per ritornare dove sono nate, o dove le persone si muovono nello stesso edificio e non si potranno incontrare mai, dove in una bolla di vetro si vede una stanza in prospettiva deformata che permette di vedere quello che forse l’occhio non può. Il tutto rappresentato con una precisione matematica sbalorditiva. E si crea un mondo visionario, illusorio, fantastico, ma estremamente esatto grazie alle scienze matematiche e infatti matematici e psicologi si interessano ancora oggi alla sua produzione ed al suo precisissimo mondo fantastico, che tra l'altro ha influenzato molti disegnatori di fumetti. Ma le opere di Escher non sono solo questo, credo che quando Escher ha abbandonato i paesaggi per immergersi nei suoi studi scientifici, non sia stato solo per interesse e curiosità intellettuale, ma per ricercare una chiave espressiva di rappresentazione del suo mondo interiore. Egli infatti ci parla di armonia, di mistero della vita, di incomunicabilità, di casualità, di sogno, tutti governati da teoremi matematici: qualcosa che prescinde dalla semplice fantasia dell’artista, ma che da scientifico diventa cosmico ed incantato come il mistero della vita.
Maresa Sottile

martedì 8 novembre 2011

Marc Chagall
Marc Chagall è uno degli artisti più importanti del ‘900. Nato a Vitesbek (attuale Bielorussia) nel 1887 e morto in Francia nel 1985. Chagall ha attraversato il ‘900, conosciuto le avanguardie ed i più grandi artisti del secolo, ma non ne è stato influenzato.
Chagall nel panorama della pittura del secolo scorso è un artista unico, oltre che uno dei più noti anche al grande pubblico. Nessuno è stato più russo ebreo di lui e nessuno come lui è riuscito a raccontare il proprio mondo, la propria cultura, la propria infanzia, trasfigurati dalla genialità e fantasia della sua arte. Come tutti i grandi artisti del ‘900 ha stravolto le regole ed imposta la propria visione delle cose, della religione, dei sentimenti. Un mondo di isbe capovolte, innamorati che volano, violinisti che suonano sul tetto, ebrei erranti, e di colori fantastici, a volte materici, irreali ma funzionali al suo narrare.
Leggendo la sua autobiografia scritta nel ’30, periodo in cui sta a Berlino, anche la sua prima mostra fu a Berlino e con successo, ma poi il nazismo espulse le sue opere, si comprende che Chagall non avrebbe potuto dipingere altrimenti. Si capisce come sia rimasto in lui l’universo della prima infanzia, come sia stato formativo per il suo spirito.
Suo primo maestro è un pittore locale, Jehuda Pen, noto nella zona al suo tempo. Poi va a studiare a Mosca, lavorando per mantenersi, e finendo perfino in carcere perché essendo ebreo non ha il permesso di soggiorno, come se fosse uno straniero in patria. Nel 1910 va a Parigi vi si ferma fino al 1914. Conosce il lavoro dei più grandi artisti del suo tempo, lavorando anche fianco a fianco con loro, ma non si fa influenzare da nessuno non segue alcun movimento né è stato influenzato dall’opera di nessun altro artista. E’ rimasto se stesso. Nato in un paesino sperduto della Russia, in una povera famiglia ebrea, non ha mai dimenticato la sua cultura, la sua religione. Le esperienze della sua infanzia gli sono rimaste dentro per sempre, lo hanno formato e ce le ha rimandate trasfigurate dalla sua pittura onirica che ha dato loro valore universale. Tornato nel '14 a Mosca si innamora e si sposa nel '15, vivendo in miseria, eppure felice con il grande amore della sua vita: Bella Rosenfeld. Nel 1916 fa la sua prima mostra a Berlino. Ha successo, ma poi il nazismo lo metterà al bando lui e le sue opere.
Tornato nel '20 a Mosca lavora, crea un’Accademia, ma è troppo fantasioso e ribelle per inserirsi realmente nel regime.
Nel ’23 è di nuovo in Francia e la sua vita di povertà finisce, anche se in Russia Chagall ha conosciuto comunque una grande felicità soprattutto nel suo matrimonio per il grande amore che lo ha legato  alla moglie, che ha caratterizzato la sua storia fino alla morte di lei, ed ha anche partecipato alla vita culturale del suo paese con qualche incarico ufficiale. Quando si trasferisce a Parigi con la Bella e la figlia  la fortuna gli arride: Vollard, il celebre mercante d’arte anche di Picasso, lo mette sotto contratto, ed ha una vita serena di intenso lavoro. Tra le opere una serie di acqueforti per le ‘Anime morte‘ di Gogol, quelle per le Favole di La Fontaine e per la Bibbia. Nel ’41 si trasferisce a New York, Parigi è in mano ai nazisti. Rientrerà alla fine della guerra e rimarrà per sempre in Francia, attivo e vitale fino alla morte nel 1985 a 98 anni. Nel 1946 il Museo of Modern Art di New York gli dedica una retrospettiva. Chagall ha 59 anni ed è dal suo ritorno in Francia nel ’23 che comunque la sua opera ha successo.
Chagal ha saputo trasformare il mondo della sua infanzia povera ma magica, la sua cultura, in un un racconto mitologico e fantastico, eppure pieno di storia e pieno di umani sentimenti, non ultimi l’amore e la speranza, ed i valori della fede che travalicano le singole religioni. E il colore forte, contrastante, ha anch’esso una funzione poetica di gioia o di dolore oltre il contenuto pittorico. Come i suoi suonatori di violino seduti sui tetti, le sue case capovolte, i suoi ebrei erranti, i suoi mazzi di fiori…
Chagall resta un unicum nella storia dell’arte. Lontano da ogni corrente o suo collega, ha raccontato tutta la vita una favola che parla della sua patria, influenzato dalle icone del suo paese, dalle vignette che si vendevano nei mercatini paesani, dai colori vivaci delle matrioske, dalla sua grande famiglia con lo zio che suonava il violino, dai riti del suo paese e della sua religione, persino rappresentando Cristo in croce vestito con il classico tessuto usato dagli ebrei. E dall’amore per Bella, fonte di poesia, bellezza, gioia e speranza
                                                                                Maresa

venerdì 21 ottobre 2011

San Giuseppe delle Scalze
Triste storia di una splendida chiesa
(e non solo............)
Pubblicato sul mensile Albatros del febbraio 2011
Nel cuore della vecchia Napoli, a Salita Pontecorvo, quando questa zona era tutta giardini, fu costruito Palazzo Spinelli sul quale Cosimo Fanzaco nel 1619 edificò la bellissima chiesa di San Giuseppe delle Scalze, con annesso convento, per le suore Teresiniane delle Carmelitane Scalze, passato poi nel possesso dei Padri Barnabiti quale Casa Madre dell'Ordine.
La chiesa è l'unica di cui Fanzago, oltre al progetto, si sia occupato della costruzione, facendola eseguire dalla propria bottega e seguendone l'andamento. Indubbiamente l'edificio è davvero bello ed originale con la doppia facciata per adattare il nuovo edificio al vecchio. La prima facciata ripartita in tre piani con al secondo tre grandi arcate aperte con statue del Santo, di Santa Teresa e di San Pietro di Alcantara. Al di sopra vi corrispondono tre grandi finestre di cui la centrale mistilinea propria dello stile del tempo, un timpano rettilineo ne anticipa un secondo curvilineo prettamente barocco. L'ingresso immette in un atrio con volte e botte e a crociera che con una scala a forbice, cioè con due rampe, porta al vero ingresso della chiesa che è quindi al primo piano, in corrispondenza con quello che era il salone da ballo del palazzo. Ma entrare nella vasta chiesa a croce greca è davvero sconfortante. Se la facciata e l'ingresso con le scale sono in pessimo stato e con ripari per eventuali cadute di calcinacci e quant'altro, l'interno non esiste quasi visto che oltre la struttura in forte stato di degrado non c'è altro. Nel 1980 il terremoto fece crollare il tetto dell'edificio che fu di corsa abbandonato dai Barnabiti che non vi fecero mai più ritorno. Le tele che la ornavano ora sono nei musei cittadini e la proprietà è condivisa tra Comune (infatti l'antico convento è diventato sede di scuole) e Curia. Affidata all'inizio ad un padre oblato di S. Maria Addolorata molto anziano che ogni tanto vi organizzava delle manifestazioni, alla sua morte restò del tutto abbandonata. Fortunatamente da varia anni sia l'Associazione Archintorno sia il Forum Tarsia cercano di creare movimento ed interesse intorno a questa chiesa con visite guidate, conferenze e manifestazioni di vario genere. Inoltre non è ancora certo se l'edificio rientri nel DOS, Documento Orientamento Strategico, dell'UNESCO che dovrebbe stanziare 240 milioni di euro per i monumenti di Napoli.
Purtroppo sorge il dubbio che l'UNESCO questi milioni non li darà mai vista la situazione della città di cui questa strada appare come un simbolo. Oltre la chiesa di cui fin qui sullo stesso lato c'è l'edificio dell'ex carcere Filangieri ormai chiuso e non adibito ad altre funzioni, che comprende nel suo edificio la facciata di una bella chiesa barocca usata come abitazioni in tutte le sue parti. Poco più su un'altra facciata barocca di un'ipotetica chiesa o forse di un palazzo anche questa costruzione adibita ad abitazioni. Lascio al lettore qualsiasi considerazione in merito a quanto riferito, aggiungendo solo che in città ci sono altri casi come o simili a questi. Maresa Sottile



mercoledì 12 ottobre 2011

Maria Algranati e Francesco Gaeta

Maresa Sottile
Rettifica e commenta un libro
Pieno di inesattezze molto sgradevoli

Tempo fa lessi in rete un articolo sul Corriere Adriatico nel quale qualcosa mi infastidì molto. Il Corriere Adriatico (15-4-2011) riprendeva delle notizie da un libro, inesatte e quasi offensive nei confronti di mia nonna, Maria Algranati. Scrissi una lettera di protesta e molto gentilmente il Direttore pubblicò la lettera e nella risposta, nella quale si scusava, diceva di aver preso quelle notizie dal libro Il conte di Montecristo di Miccinelli-Animato Ed. Mediterranee (1991?). Feci qualche ricerca sugli autori su internet, ma poi in quel periodo per gravi problemi personali accantonai la cosa.
Ora ho trovato le pagine del libro che parlano di Maria Algranati e ho potuto leggerle. Purtroppo è passato molto tempo dalla loro pubblicazione e non posso fare più nulla tranne che correggere e protestare e lo faccio. Davvero mi chiedo perché chi fa un certo tipo di lavoro non si documenti bene e mi chiedo perché questi autori si siano rivolti solo alla nipote di Francesco Gaeta e non anche alla nipote di Maria Algranati, cioè a me. Hanno trovato lei potevano trovare anche me. Tanto per cominciare avrebbero evitato di dire che Gaeta incontrò mia nonna a casa Galante. (pag 30) Francesco Galante e la moglie erano i migliori amici di mia nonna, ma fu in casa di Benedetto Croce che Maria Algranati e Francesco Gaeta si conobbero. Mia nonna era amica della famiglia del filosofo Croce e la stessa donna Adele quando Gaeta cominciò a corteggiarla non ne fu contenta per mia nonna, naturalmente, e neanche Alda Croce  amava molto il poeta, me lo disse durante una delle molte, tante visite che le ho fatto, inoltre si chiedeva cosa avesse trovato in lui, lei così affascinante e straordinaria, parole sue.
Maria Algranati non ha mai insegnato 'lavori domestici' presso l'istituto Ruggero Bonghi, (nota 9 di pag 30 del Conte di Montecristo) ma invece risulta dagli atti che fu direttrice artistica presso l'Istituto Mondragone, oggi Fondazione e Museo, all'epoca presieduto da Adele Croce, e vi lavorò per 12 anni e scrisse anche un libro: Storia dell'arte del ricamo edito da Le Monnier nel 1931. Inesattezze che denotano poca attenzione quando si fa un lavoro basato su ricerche di fatti veri, non di raccontini.
A pag. 23 del suddetto libro gli autori raccontano della secretazione che mia nonna fece sulla corrispondenza con il Gaeta, che le sorelle del poeta avevano venduto a sua insaputa alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Già vendere quelle lettere, quando oltretutto uno dei due protagonisti era ancora vivo, lo trovo, come dire, un po' indelicato. (Il nonno di mio marito, nipote di Francesco Mastriani, ha donate le carte Mastriani alla Biblioteca di Napoli. Ma in esse non vi è nulla che possa disturbare qualcuno. Ma ognuno la vede a modo proprio ed agisce di conseguenza.) Comunque tornando alla pag. 23 gli autori scrivono: ”Domanda logica: se l'Algranati non intendeva pubblicizzare il suo sentimento, perché non bruciò la corrispondenza?” Grande logica! Ma se le lettere Gaeta non le aveva restituite e le sorelle sappiamo che le vendettero, Maria Algranati che doveva fare? Sì, perchè Francesco Gaeta non le rese quelle lettere d'amore a Maria. E anche questo non mi appare un bel gesto, ma si tratta di opinioni personali. Il testo continua: ”Considerando per di più che nel 1978 contava 90 anni? Qualcuno parla di pudore, altri di arterio sclerosi.” (Aterosclerosi sarebbe il termine più esatto). Veramente nel '78, anno in cui morì, ne aveva quasi 93, e questo denota che stanno parlando di qualcuno su cui non hanno realmente fatto ricerche. In realtà pur avendo quell'età Maria Algranati, come capita spesso a coloro i quali tutta la vita hanno esercitato il cervello studiando, scrivendo, pensando, era molto in gamba e viveva sola perfettamente in grado di gestirsi, assolutamente senza tracce di 'arterio sclerosi'. Il testo continua: “Di certo l'ebrea - donna colta e intelligente, dicono – all'occasione mostrò calcolo, una scarsa capacità analitica. Non ipotizzò che molte altre lettere si trovassero presso qualche discendente del compagno.” Questa frase è davvero pessima incominciando da 'l'ebrea' parola scritta in un contesto nel quale ha una chiara connotazione offensiva, insultante. Che Maria Algranati fosse ebrea è un fatto reale, ma detto così ha un chiaro significato dispregiativo e irrimediabilmente razzista. Tra l'altro Maria, anche spinta dal Croce si convertì, ma la razza è razza, ovviamente. Come anche quel 'dicono'. E vorrei capire quale 'calcolo' dimostrò ed a proposito di che. Non è molto chiaro o forse anche io sono aterosclerotica. “Infatti la professoressa Pina Savarese ne possiede un centinaio. Ed alcune di esse risultano di somma utilità al nostro studio...”
Ritornando alla pagina 30: “Le lettere di Maria pulsano di passione, di richieste di… doni non disgiunte da una certa ingerenza negli studi del Gaeta.” Chiariamo subito che Gaeta, pur provenendo da una famiglia borghese aveva 'tagliato' i ponti con parte di essa, e non possedeva una lira, non aveva neanche di che mangiare a volte se non provvedeva la madre. Non credo proprio poi che Maria Algranati chiedesse doni, 1) perché sapeva che lui non aveva denaro, 2) perché non era nel suo carattere. Mi chiedo perché gli autori siano così malevoli quando parlano di lei. La denigrano tanto per denigrarla e non se ne capisce il motivo, anche perché è dimostrato che di lei sanno poco. Per quel che riguarda ”una certa ingerenza negli studi di Gaeta.” che significa? L'ingerenza è l'intromissione abusiva di qualcuno in qualcosa o con qualcuno, presumibilmente per cambiare le cose a proprio vantaggio. Allora? Oltretutto la Algranati e Gaeta parlavano di tutto, leggevano insieme Baudelaire, avevano interessi comuni e che lei possa essere andata a curiosare nelle sue carte di studio è una cosa davvero naturale, non parliamo di una donnetta, ma di una poetessa colta e raffinata. Non vedo né l'indiscrezione né l'interesse, ma di che genere di interesse stiamo parlando? Erano così diversi come persone e come artisti che davvero non vedo altro. Che poi lei nel seguito della lettera gli dica di aver sbirciato le carte dell' 'Hortolus' e gliene chieda scusa, spiegandogli che lo ha fatto per un proprio appagamento culturale, mi pare una cosa molto carina, educata e dimostrazione di sincerità.
Maria Algranati era affascinata molto dalla testa di Gaeta, dalla sua cultura, lo ammirava per questo e quando erano insieme parlavano molto di poesia, religione e cose del genere. D'altra parte la modesta prestanza fisica ed il difficile carattere di Gaeta potevano essere superati solo per il fascino della sua mente. Altra chicca è la raccomandazione che Maria chiede a Francesco per “ ...il Provveditore Massimo...” La cosa detta così non è molto chiara, anche perché Maria Algranati ebbe da ben altri personaggi raccomandazioni, il primo fra tutti fu Croce, e Gentile, Ojetti... in realtà erano presentazioni non raccomandazioni. Gaeta non aveva alcun potere oltre quello culturale e fu Maria Algranati, su sua richiesta, ad andare dal Croce perché gli trovasse un posto fisso che lo mettesse al riparo dal bisogno quotidiano e lo facesse continuare a lavorare ai suoi studi e scritti. Pur stimandolo Groce disse di no: non ne aveva i titoli. Non era infatti laureato, Maria invece si, infatti ha poi insegnato alle superiori francese. Poi cercò di lavorare per il futuro suocero, cioè il mio bisnonno, dato che voleva sposare Maria ed andò a presentarsi in casa. Ma non era adatto al lavoro che gli veniva offerto...
A pag 31 infine sempre del suddetto testo “La seconda missiva dell'Algranati contiene il “Testamento del suicida”: è del '21. Quale macabro gusto, se realmente Gaeta avesse maturato fin da allora propositi suicidi! Si potrebbe giustificare (per cosa?) la donna, ove si consideri l'estinzione dell'amore da parte di Francesco dimostrato con simili invettive : 'Se non la smetti con la tua insolenza e petulanza avverrà quanto segue: 1) L'avventura dell'oscena Gina (sorella di Maria (n.d.a.) sarà data in pasto ai nemici politici del disonorevole. 2) Sarai resa celebre in un interessante lavoro intitolato “Una famiglia ebrea”. 3) La maledizione di Dio cadrà (omissis).
A questo punto mi cadono le braccia. 1) è definitivamente chiaro che gli autori vogliono proprio infangare la figura della defunta poetessa Maria Algranati. E questo perché riportano stralci di lettere senza alcuna ragione né importanza per il loro testo continuando a fare commenti ed insinuazioni sgradevoli contro di lei. Visto che hanno potuto visionare ben 100 lettere nelle mani della nipote di Gaeta è possibile che solo queste frasi insultanti li abbiano interessati, ed a che pro per il loro testo? 2)Secondo me non rendono un buon servizio neanche a Francesco Gaeta, perché un uomo che scrive simili cose alla donna che ha amato e che lo ha lasciato, perché fu Maria a lasciarlo per le sue continue scenate di gelosia, per la sua possessività, e perché maledisse la sorella di Maria, morta di parto ad Ischia, essendo la sua amata andata col padre da lei. In Gaeta deflagra la disperazione-odio per questo presunto abbandono e bisognerebbe leggere la lettera che ha avuto da Maria per capirci qualcosa di più e non estrapolarne qualche frase ad effetto. 3) Il disonore “dell'oscena Gina”, famosa studiosa, donna coltissima, storica, amica di tutta l'intelligentia italiana del tempo, e non una squallida donnetta peccatrice, come vorrebbero farci credere gli autori, sono fatti che non interessano né agli autori né ai loro lettori, sono privati e niente affatto osceni checche ne scriva Gaeta. Comunque riferirò anche ai suoi eredi di tutta la faccenda. Sul Gaeta a questo punto non esprimo giudizi per rispetto ai suoi discendenti ed anche perché chi legge realizza da sé.
Inoltre, a parte il fatto che il libro minacciato non l'ha scritto perché non poteva, era stato accolto gentilmente e affettuosamente in casa Algranati anche se il mio saggio bisnonno aveva subito capito che non era certo un buon partito per la figlia, visto il fatto che alla sua età non aveva un lavoro e non sapeva far nulla. Quanto alla maledizione finale davvero gli autori hanno fatto un cattivo servizio a Gaeta riportandola. Non credo che sia una cosa che ne illumini la memoria. Quindi forse gli autori ce l'hanno anche con lui o volevano soltanto qualcosa di piccante che attirasse il pubblico e se la sono presa con tutti, chi coglie coglie.
Gli autori potrebbero leggere “Tavola Calda” per chiarirsi un po' le idee su Maria Algranati e anche su Gaeta, ed acculturarsi un po' meglio su questa storia. E forse anche in generale!
 

venerdì 7 ottobre 2011

Da: TAVOLA CALDA Autobiografia di Maria Algranati Ed ALBATROS Na 2009 pag.355-356

Colloquio con mia madre


Ero certa” dico e non aggiungo ‘che saresti venuta’, non ce n’è bisogno. E non dico nemmeno ‘mamma’, non siamo più madre e figlia se mai lo fummo, io specialmente per lei, io, l’anatroccolo della sua meraviglia. Ero certa, la sentivo, la sognavo la notte nella nostra vita di un tempo, la migliore, quella della sua gioventù, quando ancora la sua sorte di madre di un solo non l’aveva trasformata in nemica e la sua predilezione non ci aveva abolite. E’ qui, certamente, anche se non la vedono gli occhi della fronte, altri occhi percepiscono quel suo sorriso amaro, tra di rassegnazione alla disfatta e di constatazione dell’ingiustizia della vita. Il nostro colloquio è più d’intesa che di parole, perché io parlo con un’ombra ed ho l’esatta percezione di ciò che sia uno spirito.
Anche se è stato necessario per me dire tutto quello che c’era da dire, credi pure che non solo tutto il torbido si è depositato, ma che non mancano né le attenuanti per te, né i rimorsi per me, siamo di fronte, limpide, io penso, come acque chiare. Io misuro quanto sei stata infelice con la tua anima tragica. Ma questa tragedia è insita in noi, nel nostro sangue, in tutta la storia che è il destino della nostra gente e io discendo da te oltre che dai tuoi insegnamenti, i tuoi componenti li riconosco in me stessa, anche se qualcosa che mi ha veramente formata viene direttamente da altro di immanente e che era fondamentalmente mio.’
Ho l’impressione che si illumini.
Anche io non sono stata fortunata e nessuno lo sa meglio di te. Ma non affliggerti, la sfortuna non è l’infelicità e posso dire che sono stata veramente felice, la mia felicità non è dipesa dagli altri, era in me e nessuno me l’ha potuta strappare. Ricordi come dicevi? Dicevi: ‘se torno a nascere’. Forse veramente torniamo a nascere e penso che sarebbe fatale per me essere ancora sempre quella che sono stata. Tuttavia un certo ardore mi ha purificata e resa più flessibile come il ferro nel fuoco. Troppo tardi, lo so. Anche in questo sei entrata tu, inconsapevolmente, con la tua cultura, l’impegno per la nostra educazione, le letture che ci hai permesso (ricordi Ben Hur, Renan), con la grande scuola che hai scelto per noi. E i nostri discorsi liberi dopo le letture? Credevi di persuaderci e invece hai aperto lo spiraglio alla curiosità che ha permesso il mio vagabondaggio. Sai, uscire dal recinto è un’escursione meravigliosa, come se di notte nel silenzio si fosse spinto un cancello…purtroppo ha cigolato! Ma fuori, il mondo, mamma, quanto è grande! E si viaggia e si ritorna con il bottino. Ma si ritorna. E di nuovo, purtroppo, quel benedetto cancello, aperto quel tanto per lasciarti passare.’
Lei sorride, come sorrideva delle mie trovate, ma so che è contenta.
Puoi dirmi’ le dico in un soffio ‘se ci rivedremo?’
Forse è la luce dell’alba che la cancella e non so se ha risposto.



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Maria Algranati

Maria Algranati

Ritornerò

Alba dei galli, bianca, silenziosa,
diuturna novità
che disciogli pian piano
le tenebre del giorno,
alba, tu sei il ritorno,
la certezza assoluta del ritorno.
Tutto ritorna e tu non tornerai”
dice la voce inquieta che non si cheta mai.
Ritornerò, so che ritornerò!
Ritornerò con l'empito
della terra, che vuole
un fiore.
Ritornerò col mio fratello vento,
l'eterno viaggiatore,
come me innamorato dello spazio,
con le povere cose, che ringrazio
di non aver pensiero,
con le vite di un'ora
nate da un raggio tepido,
con tutto ciò che ignora,
passa,
vive senza parole
nella beatitudine del sole.
Ritornerò tutte le volte, quando
un'anima, sognando,
raccoglierà il sospiro
che lascio sulla terra nel mio canto.

Da: I Giorni
Poesie
Edizioni Scientifiche Italiane
1968



Ho seminato, questo mi rimane
se non raccoglierò, raccoglieranno
gli altri al felice termine dell'anno
che muta il gesto benedetto in pane.
Ho seminato e non per un'annata,
nella bisaccia ebbi buona semente
e non m'importa se non ne avrò niente,
so che l'ho sparsa, so che l'ho donata.
La buona pianta, ne sono sicura,
se Dio vorrà con la pioggia e col sole,
la buona pianta verrà per chi vuole.
Nè ho provveduto alla sola pastura,
perché al frumento ho mescolato i gigli,
che li trovino i figli dei miei figli.

Da: I GIORNI
Poesie
Edizioni Scientifiche Italiane
Napoli 1968

martedì 4 ottobre 2011

Abbiamo visto, sia pure superficialmente, che metalli e pietre preziose hanno avuto grandi e svariate valenze nel corso della storia. Prima fra tutte una valenza di omaggio verso la divinità e questo in ogni religione, in ogni luogo e in ogni tempo. Si rende alla divinità omaggio con quei materiali così preziosi, e nel passato così misteriosi, che ha donato all'umanità. Ad esempio nell'antico Egitto la massima divinità era il sole (Ra) e l'oro il suo simbolo e il faraone la sua l'espressione terrena, da ciò l'oro era solo per il faraone, solo lui poteva indossarlo, solo per lui poteva essere usato. Nella religione cristiana continua la valenza ed il simbolismo dei materiali preziosi, pensiamo alle aureole di Cristi, Madonne, Santi che per secoli saranno e sono d'oro, già dall'arte bizantina, per significare la divinità dei personaggi raffigurati, si usa il fondo d'oro. Nella stessa Bibbia oro e gemme vengono molto nominati da Dio stesso che detta, ad esempio, la Sua volontà su come edificare Gerusalemme che sarà d'oro e nomina anche le gemme che dovranno essere usate, gemme che hanno in sé valori simbolici. Lo stesso vale per il pettorale di Aronne nel quale le dodici tribù di Israele vengono rappresentate da altrettante gemme. E anche la letteratura parla di oro e gemme, lo fa persino Dante e, naturalmente, sempre con valori simbolici, ma anche per rendere più suggestive le descrizioni. Nel Medioevo, i famosi secoli bui, che poi bui non sono, ma qui il discorso sarebbe un altro e non è questo lo spazio per occuparsene, oltre l'architettura di castelli e monasteri, l'arte figurativa si occupa di oreficeria. In ogni libro di storia dell'arte è l'arte orafa l'argomento trattato per le arti figurative oltre ai libri copiati, decorati e miniati da amanuensi, per lo più monaci e monache, che usano oro per decorare lettere e miniature. Bisogna anche pensare che l'oreficeria non è solo formata dai monili che indossano donne e uomini, ma comprende tantissimi oggetti: dalle brocche alle else delle spade, dalle pale d'altare ai reliquiari, dalle corone alle coppe.
Nel '400 spesso vengono rappresentate con una collana, una catena d'oro, le persone ricche e potenti: l'oro è il simbolo di ciò che sono. Le Madonne della pittura per lo più non indossano gioielli, ma spesso si, e saranno le perle ad ornare le Madonne. Perché la perla è ritenuta simbolo di perfezione per la sua forma sferica, ma anche perchè simboleggia la purezza. La perla viene dal mare e nasce, secondo le credenze del passato, ad esempio, per un baluginio celeste in modo puro quindi, o è la lacrima dell'ostrica che dopo averla prodotta muore, quindi pura. Perciò la perla era la gemma degna di ornare le Madonne, ma anche il corallo che per il suo colore rosso ricorda il colore del sangue diventando così, attraverso una serie di interpretazioni, invenzioni di autori di lapidari, personaggi assai dotti e stimati e studiati fino al '600 persino da grandi uomini di ogni campo,  simbolo del sangue di Cristo, per cui, spesso, nella pittura Gesù Bambino porta al collo un rametto di corallo o regge in mano un rosario di corallo, e altrettanto la Madonna. Attraverso una serie di elaborazioni il corallo diviene simbolo di Cristo ed anche di buon augurio, tanto che una volta si regalava ai neonati un rametto di corallo. Nonché protettiva e scaramantica quindi, da qui poi nascerà il famoso corno di corallo contro il malocchio.
Bisogna anche pensare che per secoli la cultura scientifica come la intendiamo ai nostri giorni non esisteva. Sappiamo tutti che è con Galilei che nasce il concetto di scienza verificata e sperimentata, come si intende oggi. Un tempo la 'ricerca scientifica' si basava sulla semplice osservazione e su tesi fantasiose che gli studiosi elaboravano, elaborazioni sempre condizionate dalle religioni, dalle leggende, dalle credenze popolari. Bestiari, erbolari e lapidari insieme agli importantissimi studi astrologici (empiricamente astronomici) ai quali i lapidari in particolare sono molto collegati, erano basi culturali assai importanti che si influenzavano tra loro e tutto influenzavano. Qui parliamo di oro, gemme e oreficeria che hanno valori simbolici nell'arte figurativa, ma si può più o meno affrontare la rappresentazione della flora o degli animali che hanno anche loro una simbologia. Certamente l'argomento dell'oreficeria è più ricco di valenze, ma già se pensiamo alle pecore vicino al Cristo delle rappresentazioni paleocristiane e bizantine, o alla colomba, o all'uva, simboli cristiani per eccellenza, o all'ulivo, ci rendiamo conto che quello che vedono i nostri occhi spesso non basta, bisogna anche decodificare ciò che si guarda, il messaggio che si cela magari in un ciondolo al collo di una dama, un bracciale sul braccio, e così via. Ad esempio un ciondolo al collo di una dama solitamente indica un pegno d'amore soprattutto se vi è un rubino. Quindi la dama raffigurata non è solo ricca perché possiede un bel gioiello anche costoso, ma è una donna sposata o almeno promessa.
Come l'oro e le varie gemme hanno dei significati simbolici, anche le forme dell'oreficeria assumono significati simbolici e anche scaramantici. Le forme dei monili nascono già dalla preistoria con significati complessi: religiosi, di status, scaramantici, protettivi, oltre a quello di ornamento che è il simbolo anche della umana vanità. L'anello ad esempio, nella sua forma circolare rappresenta la compiutezza, l'unione, diventerà quindi il simbolo d'amore e d'unione per eccellenza. Se poi lo adorniamo con un diamante, la pietra più bella e preziosa, che tra le sue tante valenze comprende quello della perfezione, ma anche dell'indistruttibilità, possiamo capire perché viene usato come pegno e simbolo d'amore ancora oggi. La parola anello viene da anus e qui credo che tutti ne sappiate il significato, non per niente si dice di chi è fortunato che ha ......
Maresa Sottile

sabato 17 settembre 2011

L'oreficeria e le arti figurative

Sono una studiosa di storia dell'arte ed un'amante dei gioielli e queste due passioni sono gli argomenti di uno studio di cui sto scrivendo e che vorrei condividere con voi, sperando che lo troviate affascinante quanto lo trovo io.
Oggi abbiamo dell'oreficeria un concetto molto diverso da quello del passato, lo riteniamo pressocchè un argomento frivolo ed economico, ma non lo associamo alle arti figurative. Conosciamo opere d'arte in cui sono presenti gioielli e li assimiliamo ad un semplice ornamento dell'abbigliamento. Eppure non è proprio così. E bisogna anche dire che l'oreficeria spesso è stata opera d'arte
Dobbiamo partire da molto lontano: l'età della pietra, quando già troviamo oggetti di ornamento della persona in materiali poveri: conchiglie, semi, selci, pietre con cui l'umanità si adornava. E da allora questo non è più cambiato. Col tempo poi si sono trovati oro, argento e pietre preziose, così definite perché rare, bellissime e con peculiarità eccezionali come la trasparenza, la durezza e la rifrazione della luce, così l'Uomo ha affinato le sue capacità di lavorazione dandoci oggetti straordinari.
Nel tempo l'umanità ha imparato a tessere, a ricamare, a fabbricare oggetti d'ogni tipo, anche gioielli appunto, e molte di queste attività sono state 'catalogate' con l'etichetta di “arti minori” o “suntuarie” cioè di lusso, perché solo i ricchi avevano la possibilità di possederle, soprattutto i gioielli. Addirittura nell'antico Egitto dal IV-V sec a.C. per legge solo i faraoni potevano indossare gioielli, soprattutto l'oro, simbolo del dio Ra (il sole) del quale egli era figlio e incarnazione, quindi egli solo poteva possederlo.
Vediamo quindi che l'oro, materiale che ha avuto per l'umanità grande importanza, potere e fascino ha anche un valore simbolico. Questo concetto è molto importante perché tutti i materiali preziosi: oro, argento e pietre preziose e semi preziose, cioè le pietre dure, assumeranno valori simbolici ed è in questa chiave che per secoli verranno soprattutto usati dagli artisti nella pittura.
Ma prima di andare avanti voglio parlare un attimo delle cosiddette 'arti minori' a cui prima ho accennato. Questa etichetta gliela affibiò Leon Battista Alberti nel '400 e sotto questa etichetta vanno molte attività umane, che 'minori' non sono affatto, oreficeria in testa. Di 'arti minori' ne possiamo indicare molte e più è passato il tempo più sono aumentate: l'abbigliamento, cioè la moda, il ricamo, la ceramica, l'arredamento, l'intarsio dei marmi, la lavorazione dei metalli, la fotografia, la pubblicità, il cinema, il fumetto, e altre ancora. Alcune sono vecchie di millenni, altre più recenti. Alcune meno di quanto crediate come la pubblicità e la fotografia, che poi è una scoperta e non un'invenzione, perché già i greci avevano qualche idea della camera oscura...e nel '700 era usata normalmente dai pittori. Ed alcune sono assurte al ruolo di vera e propria arte come il cinema, detta la decima arte, ed anche la fotografia di cui si fanno mostre e si acclamano autori.
Ma la distinzione tra arte e arte minore è pretestuosa perché nei secoli anche i più grandi artisti le hanno praticate: Picasso faceva ceramiche, Holbein disegnava gioielli, Michelangelo disegnò (e perché no) le divise delle guardie svizzere....e un orafo come Benvenuto Cellini realizzò sculture che fanno parte della storia dell'arte come il Perseo. Inoltre ci sono capolavori della pittura che devono molto alla presenza delle arti minori. Come il ritratto del Bronzino di Eleonora di Toledo con il figlio che non sarebbe il capolavoro che è se il pittore non avesse raffigurato la magnificenza dell'abito e dei gioielli.
Nella storia dell'arte dell'alto medioevo è l'oreficeria l'argomento centrale, tanto per fare un altro esempio per comprendere come le due 'arti': pittura ed oreficeria siano sodali, compatibili e scambievoli. Gli artisti, e questo è un fatto inconfutabile, non hanno mai fatto distinzione ed hanno frequentato molto tutte le arti minori: Le Courbusier ad esempio ha disegnato mobili tra i quali una famosissima poltrona. Molti artisti hanno disegnato scene e costumi teatrali. Potrei continuare a lungo.
Abbiamo stabilito, quindi vari concetti: 1) la preziosità dei materiali e quindi la grande considerazione di cui godevano, 2) la loro indiscussa bellezza, 3) il concetto di simbolo che essi assunsero, 4) lo scambio tra arte e arti minori.
Detto ciò bisogna aggiungere che l'Uomo considerò i metalli preziosi e le gemme materiali inspiegabili e nella ricerca di dare un senso a ciò si convinse che fossero un dono divino e quindi per ciò che riguardava le divinità pagane e poi cristiane doveva usare quei materiali come ringraziamento dei fedeli. Associandoli alle divinità quelle pietre e quei metalli assunsero un simbolismo e dei valori, che oggi sappiamo del tutto falsi, ma che allora divennero importanti, quando non fondamentali. Cambiando le religioni, i luoghi, i tempi quei valori non sparirono, anzi si arricchirono.
Fidia il più grande e famoso scultore greco di età classica realizzò due enormi statue: di Atena sull'Acropoli e poi di Giove ad Olimpia in oro e avorio. E la cristianità ha usato l'oro per rappresentare il Paradiso come testimoniano i mosaici bizantini e gran parte della pittura, fino a Giotto. Le aureole sono in oro, a volte incastonate di gemme dipinte o vere, e lo sono i troni su cui siedono Gesù, Madonne, santi, vescovi, gli abiti, che hanno bordure con ricami in oro e pietre preziose, anche qui non sempre solo dipinte. A questo proposito vi dirò che fu Attalo, re di Pergamo, a far realizzare il filo d'oro dal metallo, con cui poter ricamare le vesti dei grandi personaggi.
Ma il simbolismo è piuttosto complesso perché non è solo l'oro, il metallo più prezioso, lucente, inalterabile ad avere questa valenza. La provenienza delle gemme era quasi esclusivamente orientale e già indiani, cinesi davano loro valore simbolico, ad esempio in Cina la giada nefrite era sacra e simbolo della divinità suprema e anche usata per curare i reni in altre civiltà. Fu in questi paesi che nacquero i 'Lapidari', libri sulle pietre preziose e semi preziose. Quelli indiani catalogavano soprattutto le gemme per le loro caratteristiche e valore oltre che il loro simbolismo, i cinesi davano valori simbolici e terapeutici alle gemme, anche se non ufficialmente perché la religione non lo permetteva.
Anche Plinio nella sua “Storia naturale” cataloga le pietre e vi accosta molteplici valenze anche curative, ad esempio.
Ma il boom, come diremmo oggi, avviene nel medioevo dove una quantità di lapidari vengono scritti. Uno dei primi conosciuti fu il
Picatrix, mai edito ma egualmente diffuso, famoso e base dei futuri lapidari tra cui i più famosi quelli della monaca Ildegarda di Bigen (anche beatificata) del XII sec. e quello del vescovo Marbodo di Rennes XI-XII sec. Anche in questi testi vengono attribuiti alle gemme simboli e poteri anche terapeutici e per secoli furono creduti e usati. Ricordate che Nerone usava un monocolo di smeraldo come lente? bene uno dei poteri dello smeraldo era quello di aiutare la vista e Ildegarda raccomanda cure con gemme triturate di cui viene da chiedersi l'effetto, ma in senso del tutto negativo data la evidente pericolosità.
Questi lapidari erano tenuti in gran conto, anche dagli uomini di cultura. La cultura di quel tempo cercava di dare risposte a cose che trovava misteriose, ma non conosceva ancora l'indagine scientifica, si avvaleva quindi di quello che possedeva, stabilito nel passato e prendendolo appunto per 'oro colato'. Fino al Rinascimento le credenze nate ed arricchitesi nel tempo sulle pietre preziose o sugli astri ed i loro influssi, ad esempio, furono fondamentali. Le gemme non avevano solo valori simbolici o curativi ma anche scaramantici. Vi è tutto un ramo dell'oreficeria che parla della glittica, cioè dell'incisione delle pietre pregiate, che è antichissima, e che aveva un valore scaramantico e protettivo per chi le indossava o solo possedeva.
Fatte queste premesse appare logico e inevitabile che oro e gemme rappresentati per secoli nella pittura, qualche volta anche in scultura, abbiano valenze di cui senza queste notizie non capiremmo il senso. Senza considerare che l'oreficeria è stata un'attività umana molto importante in sé che ha raggiunto altissimi livelli nelle lavorazioni, nella fantasia. Purtroppo l'oreficeria ha un grosso svantaggio. Gemme, argento ed oro sono indistruttibili e spesso sono stati usati per il loro grande valore per finanziare guerre, per salvare da rovine economiche, quindi spesso smontati, anche per un fatto di moda o perché rubati, e rimontati diversamente. Infatti i gioielli antichi hanno un valore aggiunto anche superiore a quello reale per il valore dei materiali. Ed ecco un altro aggancio: è dalla pittura che si può ricostruire la storia dell'oreficeria. Che tra l'altro è una storia interessantissima, affascinante.
Fatta questa lunga premessa potremo arrivare al legame tra pittura ed oreficeria.
              Maresa Sottile

sabato 3 settembre 2011

Donne pittrici nell'arte barocca VI

Lucrina Fetti (Roma 1590c.-1655 Mantova) Figlia di Pietro, pittore, sorella di Domenico, pittore noto col nome di Mantovano.
Studiò col padre ed il fratello con i quali si trasferì a Mantova al seguito di quest'ultimo chiamato alla corte dei Gonzaga. Il suo vero nome era Giustina, ma lo cambiò in Lucrina quando si monacò nel convento di Sant'Orsola fondato nel 1599 da Margherita Gonzaga, che ne fu anche badessa per due anni. Convento che fu un centro culturale molto vivo ed importante tanto da eguagliare la corte. A Mantova si svolse tutta la sua opera religiosa e ritrattistica che la resero assai nota e stimata. Come il fratello fu una pittrice influenzata dai grandi del suo tempo. I suoi ritratti sono molto sontuosi ed evidenziano molto lo status dei personaggi.
Artemisia Gentileschi (Roma 8-7-1593 Napoli 1653), figlia di Orazio noto pittore caravaggesco che lei indubbiamente superò. Ebbe una vita movimentata artisticamente e privatamente. Lavorò a Roma, in Toscana, a Venezia, a Napoli. Fu violentata da un collega che denunciò e al processo subì una specie di linciaggio morale. Personaggio di donna coraggiosa, libera, conscia di sé e del proprio talento. Tra le donne artiste del passato è certamente una delle più conosciute, se non la più nota.
Il suo talento si sviluppò in un ambiente, quello di Roma, ed in un periodo carichi di fermenti artistici. Il Caravaggio imperava con le sue innovazioni formali e contenutistiche, influenzando la pittura di tutta Europa ed anche per molto tempo, anche se spesso più formalmente che per i contenuti. Artemisia fu una delle maggiori esponenti caravaggesche. Le sue opere sono in chiese e musei, ed è una delle poche artiste delle quali fu sempre apprezzato il talento, tanto da essere una delle pochissime ad essere citata in passato nei libri di storia dell'arte.
Josefa de Ayala di famiglia portoghese nasce a Siviglia (1630) ma da piccola torna in Portogallo dove morirà il 2 luglio 1684. Figlia anche lei di un pittore, Baltazar Gomes Figueira de Ayala. Iniziò molto giovane eseguendo incisioni: il padre ne aveva una collezione che interessò molto Josefa. Fu molto nota e apprezzata e lavorò molto sia eseguendo pale d'altare, sia ritratti, sia nature morte. Si firmò anche Josefa em Obidos dalla città dove visse dopo Coimbra.
Gesina ter Borch (Daventer prima del 15-11-1631[battesimo] Zwolle 16-4-1690), quindi belga e figlia e sorella e sorellastra di pittori. Dimostrò il suo talento già da adolescente. Scrittrice e disegnatrice illustrò i propri scritti. La sua opera da poco è stata rivalutata con mostre ed interessamento da addetti ai lavori e pubblico.
Io termino qui il mio racconto sulle donne artiste, non perché non ce ne siano più, ma perché a questo punto, forse anche prima, le artiste cominciano ad avere una visibilità maggiore. Siamo alle soglie del XVIII sec. Le donne stanno trovando un po' più di spazio e di accettazione, anche se la strada è lunga e non ancora terminata. Il mio scopo era quello di aprire una porta e indicare un mondo quasi sconosciuto ai più. Su questo straordinario strumento, mondo, che è Internet si può trovare di tutto e di più e chiunque sia interessato alla conoscenza può cercare...e se saprà farlo farà grandi scoperte. Per non parlare dei libri.
Maresa

martedì 12 luglio 2011

Berlusconi e Bossi affossatori dell'Italia

Sono indignata, sono disgustata, sono disperata, sono sbalordita. Quello che capita in questo paese è davvero disperante, quasi incredibile. Ma possibile che una parte degli italiani non si sia ancora reso conto di come stanno le cose?

Chi è capitato su questo blog si è reso conto che qui gli argomenti trattati sono ben altri. Sono una studiosa di storia dell'arte, mi piace scrivere, fare fotografie. La politica non mi ha mai molto interessata. Ma purtroppo Berlusconi circa vent'anni fa è entrato in politica. E per sovraccarico per avere la maggioranza si è alleato con la Lega. Non sono né l'unica né la prima, lo hanno scritto anche giornali stranieri, Berlusconi ha rovinato l'Italia in una vera escalation del peggio del peggio. Mi pare ripetitivo dire che è entrato in politica non per l'Italia né per gli italiani ma per i suoi problemi con la giustizia. Non ha mai avuto idee politiche ma aziendali: le sue. Ve lo ricordate il patto con gli italiani? Io non ci ho mai creduto, e voi? Ma lui poverino è perseguitato dalla giustizia, perché i magistrati italiani sono tutti comunisti, quelli che mangiano i bambini! La cosa più tragica è che ha portato alla ribalta una 'classe politica' che non si vuole più schiodare. E prima chi li conosceva? Quando fece il primo governo e sentii in televisione i nomi dei vari ministri che mi erano tutti sconosciuti pensai che ero io che non seguivo molto la politica e perciò non sapevo chi fossero. Ma voi li conoscevate? Solo a Maroni ho sentito dire che prima di Berlusconi lui non era nessuno, solo uno che frequentava, mi pare con un piccolo incarico, la sede della Lega al suo paese. Oggi è ministro.
Credo che  il presidente del Consiglio ed il suo governo per il paese e per i cittadini non abbiano fatto nulla, anzi ci abbiano fortemente danneggiati. Non abbiamo più credibilità internazionale perché la politica estera non credo che si faccia coi rapporti personali ed i fine settimane nelle dacie e gaffe a go-gò negli incontri internazionali, né baciando le mani ad un dittatore e neppure raccontando ad imbarazzati capi di governo i propri guai giudiziari. E non si governa il paese a botta di voti di fiducia, non si fa politica in televisione dicendo di essere un perseguitato dopo aver corrotto.............................a chi non trova lavoro 'andate a lavorare invece di contestare', e non si fa una manovra economica colpendo solo chi ha poco. Ma non avevano detto che anche il governo si sarebbe tagliato stipendi e quant'altro? E dove lo mettiamo Bossi ed i suoi che continuano a schifare chi non è padano facendo gesti osceni, ma sbaglio o è un senatore della Repubblica che noi ITALIANI ANCHE DEL CENTRO E DEL SUD paghiamo ?
E Brunetta dove lo mettiamo? Io saprei dove!
Il problema degli Italiani è la memoria corta. A Craxi gettammo le monetine per disprezzo e lui fuggì per non affrontare le conseguenze delle sue azioni. Ma quando è morto un altro po' volevamo santificarlo. E Berlusconi non era molto legato a Craxi?
Questo piccolo sfogo voglio finirlo qui anche se potrei continuare per molto, tanto non hanno cambiato le cose personaggi molto più preparati di me, più intelligenti, anche molti più divertenti di me. A taluni piacciono le dittature, perché la nostra ormai è una dittatura televisiva da repubblica delle banane. Se condividete quello che ho scritto ditemelo e aggiungete anche quello che volete, il carico non sarà mai troppo,  e magari ditelo anche ad altri, se non lo condividete pensateci un po' meglio su. Maresa

lunedì 11 luglio 2011

Donne nell'arte Barocca
V

Esther Inglis Kello (1571-1624) di famiglia francese, il vero cognome era Langlois trasformato in Inglis, fuggita in Scozia per sottrarsi alla persecuzione contro gli ugonotti. Fu miniaturista e calligrafa, arte quest'ultima imparata dalla madre. Realizzò una cinquantina di libri, di cui alcuni per dono a principi reali. Sposò Bartholomew Kellow. Ebbe una vita privata non particolarmente felice, anche perché non si ambientò mai del tutto nella nuova patria.
Fede Galizia (Milano 1578-1680) figlia del pittore e miniaturista Nunzio, che fu maestro della sua precoce attitudine: a 12 anni era già a lavoro. Morì nel 1630 durante la peste raccontata dal Manzoni.
Come tutte le pittrici del passato iniziò come ritrattista, ma presto la sua fama le portò anche commissioni di altro genere quali tele di soggetto religioso e opere con soggetti mitologici. Dipinse anche molte bellissime nature morte, genere dimenticato per secoli e ripreso da pochi anni dal già famoso Caravaggio col giovanile 'Canestro di frutta', inizio di una serie infinita di pitture sul tema.
Orsola Maddalena Caccia (1596-1676) piemontese anche lei figlia d'arte: pittore il padre Guglielmo noto col nome di Moncalvo, pittrice la madre Laura Oliva figlia del pittore Ambrogio Oliva. Con quattro delle sue sorelle si monacò ritirandosi nel convento di clausura delle Orsoline di Bianzè. Lei e la sorella suor Francesca, oltre che insegnare alle consorelle cominciarono ad avere una vera attività artistica con commissioni esterne. Si trasferì poi nel convento fatto costruire a Moncalvo dal padre che voleva esserle vicino anche per seguirne il lavoro. Orsola divenne  famosa anche per le sue nature morte, le più importanti nell'ambito pittorico del '600 piemontese.
Nello stesso convento di Brianzè erano anche altre due sorelle pittrici Laura ed Angelica Bottero, delle quali però si sa poco, anzi nulla.
  Maresa Sottile

domenica 26 giugno 2011

Armando De Stefano
Un artista che onora Napoli
Il nome di Armando De Stefano è uno dei più importanti nel mondo dell’arte della nostra città, e non solo, vista la sua presenza in musei anche all’estero ed alle sue mostre in mezzo mondo; e noto se non a tutti almeno a quanti abbiano un minimo di interessi culturali, anche perché restano eventi le sue mostre a Palazzo Reale, l’ultima nel 2002, infine al Pan nell'autunno del 2009 con una mostra antologica molto ricca e molto visitata. Ha tenuto per molti anni la cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Napoletano verace, non ha mai voluto lasciare la sua difficile città che ama con tutto il suo carico di bene e di male.
Allievo del Maestro Emilio Notte, è passato attraverso le esperienze ed i fermenti artistici che si succedevano nei suoi anni giovanili, soprattutto il realismo insieme a Guttuso, ma anche l’influenza dall’espressionismo. Sensibile e partecipe degli eventi sociali e politici, sempre più, già dagli anni ’60, si avvarrà della figura per il suo racconto pittorico che si snoderà nel tempo in grandi cicli, dall’Inquisizione, a Masaniello, Odette, La Rivoluzione del 1799, L’Eden degli esclusi, Dafne, solo per citarne alcuni. Legato alla pittura del ‘600, che a Napoli ebbe grande rilevanza anche per la permanenza di Caravaggio, De Stefano reinventa un linguaggio denso di significati, di metafore, estremamente concettuale e al contempo teatrale e immaginifico, di una qualità e di un livello pittorici rari e coinvolgenti. Chi crede che oggi l’immagine figurativa non abbia più molto da dire non ha mai visto le figurazioni di De Stefano. In composizioni complesse, spesso di sapore teatrale, le immagini di De Stefano ci raccontano gli umani conflitti, le umane efferatezze, ingiustizie, passioni, con un linguaggio ricco e sintetico ad un tempo, in un’invenzione compositiva affascinante nella sua atemporalità. Il colore sapiente ora cupo, ora leggero, talvolta freddo ed acido completano un discorso di alta levatura etica.
Nell’ultimo ciclo del Maestro, quello di Dafne, il discorso dell’artista si fa più interiore, la sua attenzione più intima e lirica. Con raffinate tecniche miste, in cui si fondono in modo straordinario grafica e pittura, scruta il tormento dell’animo, le sue metamorfosi e trasfigurazioni con il simbolismo del mito che da sempre è stato mezzo di narrazione metaforica dell’umano.
Al Maestro De Stefano, di cui fui allieva, credo che questa città debba essere molto grata, perché con la sua opera ha reso omaggio ad essa, alla sua storia ed alla sua gente, con opere che certamente resteranno molto più di tanti tentativi di ricerca di nuovi linguaggi che spesso si sono rivelati vacui e intelligibili per i più, e molto perituri. Maresa Sottile

mercoledì 22 giugno 2011

Il nido

Nina aveva una bella cameretta con la finestra che affacciava sulla campagna essendo uno degli ultimi palazzi della città. Non era una gran campagna e c'erano pochi alberi, uno solo abbastanza alto ma arrivava al secondo piano e lei abitava con la famiglia al terzo. La finestra aveva la serranda montata al limite esterno del davanzale e un angolo rotto che lasciava uno spiraglio triangolare sulla destra e fu da quella fessura triangolare che due uccellini entrarono e lo scelsero per nidificare. La mamma di Nina capì subito che era l'inizio di un nido e non toccò l'agglomerato di sottili sterpi e ramoscelli. Per Nina che aveva cinque anni fu qualcosa di davvero eccitante. Gli uccellini fanno il nido tra i rami degli alberi, le rondini sotto i tetti. Non aveva mai visto un nido da vicino anche se andava in campagna dai nonni.
Il nido prese la forma di una palla. L'ingresso era stato lasciato dal lato che dava verso il muro, nascosto allo sguardo, ben protetto. Un giorno, mentre loro svolazzavano tra i rami, la mamma scostò il nido e videro l'interno tutto foderato di piumette bianche. Chissà da dove venivano quelle piume perché loro non erano bianchi.
Con gli uccellini nacque una vera amicizia. Con la mamma dopo pranzo mettevano bricioline sul davanzale e loro vi si soffermavano ormai senza alcun timore. Un mattino becchettarono contro il vetro come per chiamarla e da allora ogni mattino svegliavano Nina con quel ticchettio sul vetro. La madre le aveva detto che era una cosa eccezionale quella storia e Nina si sentiva speciale perché succedeva a lei. Per una bambina di cinque anni era una grande e bella avventura. Soprattutto dopo la brutta cosa che aveva visto tempo prima andando con la mamma all'ufficio del padre. La stanza affacciava in un cortiletto stretto, per fortuna era all'ultimo piano ed era luminosa. Dal piccolo balconcino c'era poco da vedere oltre un tetto di tegole e il cielo. Sotto al balcone correva un piccolo cornicione su cui era acquattato un gatto rossiccio e più in là c'era un canarino.
Nina aveva chiamato i genitori che si erano affacciati con lei. Anche se era piccola aveva capito le intenzioni del gatto.
Lo vuole mangiare.” disse la mamma e battè le mani per farlo fuggire.
Anche il papà lo fece. Il canarino svolazzò nel perimetro del cortiletto ma non riuscì a trovare la via di fuga e si riposò sul cornicione. Allora i genitori di Nina e anche lei batterono ancora le mani ripetutamente. L'uccellino svolazzò di nuovo tra le pareti del cortiletto ma inutilmente così di nuovo si posò sul cornicione. Il gatto fece un balzo velocissimo e fu sulla preda. I genitori la tirarono via dal balcone.
Adesso invece poteva prendersi cura di quegli uccellini e renderli felici dando ospitalità e protezione sul suo davanzale. Non c'era riuscita col canarino ma ora...
Poi fecero un'altra ispezione nel nido e videro che c'erano tanti piccoli ovetti bianchi.
Accadde un pomeriggio, verso le quattro. Si era alzato un vento forte,di quelli rabbiosi. La mamma pensò subito che quel vento era pericoloso per il nido. Fece di corsa il lungo corridoio fino alla stanza di Nina, ma una folata l'aveva già fatto volare via. La mamma si affacciò, poi andò velocemente verso la porta di casa raccomandandole di non muoversi che lei andava a vedere. Nina rimase in attesa davanti alla porta di casa chiusa. Quando la mamma risalì non aveva il nido tra le mani come lei aveva sperato, e neanche le piccole uova che i suoi amici stavano covando. Non ci fu nulla da dire. Nina passò il resto del pomeriggio davanti alla sua finestra a guardare i due uccellini che volavano in circolo tra l'albero e il palazzo emettendo dei suoni che non erano i cinguettii che conosceva. Non dubitò neppure per un attimo che quelli fossero i 'suoi' uccellini che non tornarono mai più da lei.
Le restò un grande senso di colpa e ce l'ebbe anche con la mamma. Lei era grande e doveva pensarci che il vento avrebbe potuto far volare via il nido. Pensò molto a quei suoi amici, anzi non dimenticò mai quella piccola triste storia.














martedì 21 giugno 2011

                 Donne artiste nell'arte del Rinascimento
                                                   IV

Sofonisba Anguissola (Cremona 1530/32- Palermo 1625) era di nobile famiglia, il padre faceva parte del governo cittadino quale Decurione per conto di Filippo II, la sua seconda moglie, Bianca Ponzoni, aveva amicizie di rilievo che certamente giovarono a Sofonisba. Il padre, vista l'attitudine per la pittura che le sue figlie avevano, decise di farle studiare. Sofonisba fu allieva di Bernardino Campi, e con le sorelle Lucia ed Elena frequentò la sua bottega accompagnata da una domestica. E' questa una grande novità per il tempo ed indubbiamente il padre fu un uomo molto liberale e comprensivo per quei tempi, agevolandole la carriera.
Donna di grande cultura, amica di molti artisti, viaggiò molto per il suo tempo lavorando in varie città, fu in Spagna ritrattista della famiglia reale di Filippo II fin quando nel 1568 la regina Isabella, della quale era divenuta molto amica, morì. Quando lasciò la corte Filippo, che teneva molto a lei, la dotò. La sostituì Van Dych che la conobbe ormai cieca un anno prima della morte e lodò molto le sue opere e la ritrasse anche; anche Michelangelo e Rubens ammirarono i suoi ritratti ed entrambi vollero conoscerla, e soprattutto Michelangelo ammirò la sua arte dopo aver visto suoi disegni inviategli dal padre.
Nel 1573 lavorava a Palermo perché sposò a Madrid un nobile siciliano, il marchese Fabrizio Moncade, ma nel '78 il marito morì in mare e lei partì per Genova lasciando la Sicilia. Durante il viaggio conobbe Orazio Lomellini che sposò nel 1579. Dopo un soggiorno di vari anni, nel 1615 tornò a Palermo. Purtroppo problemi di vista le impedirono di continuare a dipingere. Di lei abbiamo molte opere sparse in vari musei del mondo, da Vienna a Milano, a Bergamo, a Napoli, a Madrid, a Boston, a Baltimora...Il suo nome è uno dei pochi a godere di una discreta popolarità ancora oggi. Come quasi tutte le donne pittrici del passato, Sofonisma fece soprattutto ritratti, data l'impossibilità per una donna di studiare l'anatomia che permetteva un più vasto campo di soggetti pittorici. La Anguissola con il successo della sua carriera artistica rese meno difficile il lavoro di altre artiste.
Anche la sorella più piccola di Sofonisba, Lucia Anguissola (1536/38-1565/68), fu una pittrice brava ed ammirata, ma morì piuttosto giovane e non ebbe e non ha avuto la notorietà della sorella. Anche lei dipinse molti ritratti. Il Vasari ammirò il suo lavoro che conobbe dopo la sua morte. E' stato detto che avesse ancor più talento della sorella, ma la morte precoce non le ha fatto completare il percorso artistico e superare la dimenticanza del tempo.
Diana Scultori Ghisi detta la Mantovana (1545-1590) figlia di Giovan Battista Mantovan che le insegnò la tecnica dell'incisione. Lavorò col fratello Adamo nel laboratorio del padre che era introdotto nella corte mantovana ed aveva collaborato con il famoso pittore Giulio Romano, il più importate allievo di Raffaello. Sposò l'architetto Francesco da Volterra e si trasferì a Roma. Molto interessata alla carriera del marito si prodigò molto per lui. Donna di grande garbo e gran diplomazia si accattivò anche l'ambiente pontificio, ottenne infatti da Gregorio XIII di poter vendere le proprie opere firmate col nome di Diana Mantovana o Mantuan, evitando così di usare il proprio nome legato alla famiglia, creandosi quindi una notorietà solo propria. Di grandi capacità tecnica le sue stampe sono caratterizzate da una forte tridimensionalità. Rimasta vedova sposò in seconde nozze un altro architetto: Giulio Pelosi. Unica donna che usasse l'incisione seppe ben districarsi nelle regole poste nel settore della stampa e ottenne notorietà e fama per le sue capacità tecniche e artistiche.
Lavinia Fontana (Bo 1552-1614 Roma) figlia di Prospero, pittore manierista di successo che lavorò per vari Papi, che le fece frequentare i Carracci, ma anche gli esponenti della pittura veneta, lombarda, toscana. Divenne molto nota a Bologna per i suoi ritratti di grande fattura, ma poi la sua produzione incluse anche soggetti sacri, mitologici, biblici, interrompendo la tradizione che le donne dipingessero per lo più ritratti. Nel 1577 accetta di sposare il pittore Gian Paolo Zappi, dal quale avrà undici figli, a patto di non dover interrompere la propria attività artistica e lo Zappi accetta e interrompe il proprio lavoro per dedicarsi a promuovere quello della moglie, tra l'altro ottenendo la chiamata a Roma da Papa Gregorio XIII, e Lavinia divenne la 'pittrice pontificia'.
Oltre agli splendidi ritratti di cui abbiamo detto e per i quali veniva spesso preferita a pittori uomini, abbiamo una serie di opere: Lapidazione di Santo Stefano in San Paolo fuori le Mura, la Visione di San Giacomo in Santa Sabina, la Sacra Famiglia con Bambin Gesù che abbraccia San Giovan Battista oggi al Louvre Parigi, Minerva in atto di abbigliarsi alla Galleria Borghese di Roma, Ritratto di ragazza irsuta allo Chateau di Blois, Gesù appare a Maria Maddalena agli Uffizi...
Barbara Longhi (1552-1638) figlia di Luca, pittore manierista, studiò e lavorò nella bottega del padre. La sua attività ed il suo nome restarono circoscritti alla zona ravennate e sono poche le notizie su di lei e sul suo lavoro. Restano ritratti e scene religiose, tutti in piccolo formato.
Marietta Robusti (1560-1590) figlia di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, tra i massimi pittori del '500, fu detta anche lei Tintoretta. Studiò presso la bottega del padre e lavorò con lui ed il suo lavoro alla fine si confuse con quello paterno, tanto che divenne difficile identificarla sin quando non fu scoperta su alcune tele una M con cui siglava il proprio lavoro. Il padre l'amava molto e la portava ovunque con sé, si dice facendola vestire da uomo. Le impedì di allontanarsi da lui quando, ormai famosa, i reali d'Austria e Spagna la chiamarono a corte. Marietta si sposò con un gioielliere, Jacopo d'Augusta, ma il padre dette il consenso dopo che gli sposi accettarono di vivere con lui. Marietta morì, quattro anni dopo il matrimonio, di parto e pare che Tintoretto non si riprese mai dalla sua perdita. Di lei restano degli splendidi ritratti tra i quali :Ritratto di uomo anziano con ragazzo e un probabile Autoritratto agli Uffizi di Firenze.  Maresa Sottile
                                                                    Continua................